ISAAC ASIMOV
LE GRANDI STORIE DELLA FANTASCIENZA 5
1943
(Isaac Asimov Presents
The Great Science Fiction Stories 5: 1943, 1981)
A cura di ISAAC ASIMOV & MARTIN H. GREENBERG
Indice
Introduzione
La caverna di P. Schuyler Miller
Halfling di Leigh Brackett
Eran Birbizzi i Borogovi di Lewis Padgett (Henry Kuttner e C.L. Moore)
R.U.Q. di Anthony Boucher
Conflitto notturno di Lawrence O'Donnel (Henry Kuttner e C.L. Moore)
Esilio di Edmond Hamilton
Incubo di Vargas di Fredric Brown
La porta del tempo di C.L. Moore
L'uragano galattico di A.E. van Vogt
Il robot vanitoso di Lewis Padgett
Symbiotica di Eric Frank Russell
Il sistema ferroso di Lewis Padgett (Henry Kuttner e C.L. Moore)
Introduzione
Nel mondo all'esterno della realtà, le cose continuarono a migliorare, almeno a livello macroscopico. In gennaio, le forze armate tedesche iniziavano una lenta e costosa ritirata dall'Unione Sovietica, mentre il generale Paulus si arrendeva a Stalingrado il 31 dello stesso mese dopo aver sofferto perdite impressionanti nella settimana precedente. La ritirata tedesca continuò per tutto l'inverno mentre i sovietici riconquistavano Kharkov il giorno di San Valentino. Anche nel Nord Africa la situazione tedesca andò deteriorandosi e Hitler sostituì Rommel col generale von Arnim a capo dell'Afrika Korps. L'avanzata alleata nel Nord Africa proseguì come un rullo compressore e Tunisi fu ripresa il 7 maggio. Il 12 maggio si arrese l'armata tedesca in Tunisia. Il 20 aprile, le truppe tedesche massacrarono gli ultimi resistenti superstiti del ghetto di Varsavia e trasferirono gli altri in campi di concentramento.
Frattanto la Royal Air Force intensificò gli attacchi sulla Germania e il 17 maggio distrusse le dighe della Ruhr. In luglio i tedeschi fecero un grosso tentativo di stabilizzare le loro posizioni instabili ad est con un poderoso contrattacco a Kursk, che culminò con la più grande battaglia di mezzi corazzati della guerra... la Germania guadagnò così un po' di tempo ma nulla più. A sud ovest, gli alleati sbarcarono in Sicilia il 10 luglio e il 23 avevano già occupato Palermo, tre giorni prima della caduta di Mussolini. La tanto attesa invasione in Italia iniziò il 3 settembre e entro il 13 ottobre un nuovo governo appena formato in Italia aveva già dichiarato guerra alla Germania. Verso la fine dell'anno, le forze sovietiche avevano ripreso l'avanzata in patria, il 6 novembre ripreso Kiev, mentre i «Tre Grandi», Roosevelt, Stalin e Churchill, si riunivano a fine novembre a Teheran per mettere a punto i piani che avrebbero definitivamente sconfitto la Germania.
Nel Pacifico, l'anno cominciò con la sconfitta decisiva delle forze giapponesi a Guadalcanal; l'avanzata americana proseguì poi lentamente, snidando i giapponesi dalle isole su cui si erano asserragliati o aggirando i presidi maggiormente difesi. Il 1° novembre le forze americane sbarcarono a Bougainville, sulle isole Salomone, mentre i giapponesi iniziavano a ritirarsi combattendo sempre disperatamente.
Il 19 novembre fu liberato dal carcere il capo dei fascisti inglesi Oswald Mosley.
Nel 1943 Frank Sinatra divenne una stella dello spettacolo, e nonostante gli alti e bassi lo è ancora oggi. I Yankees di New York sconfissero i Cardinals di St. Louis per quattro partite a una e divennero campioni del mondo di baseball (se non della galassia intera) vendicando così la sconfitta dell'anno precedente. Dylan Thomas pubblicò i New Poems, mentre Dmitri Shostakovich componeva l'Ottava Sinfonia.
La penicillina venne usata per curare una grande varietà di malattie. Oklahoma di Rodgers e Hammerstein riportò un grandissimo successo a Broadway. Henry Moore scolpì la «Madonna con Bambino» e il Conte Fleet vinse il Derby del Kentucky. Il tenente (J.G.) J.R. Hunt trovò il tempo di vincere il Campionato Americano di Tennis e la grande Pauline Betz vinse il titolo femminile. Per chi suona la campana e Jane Eyre furono i due più grossi successi cinematografici dell'anno.
Henry Green pubblicò Caught, mentre venivano varate le prime Navi della Libertà sotto gli auspici di Henry Kaiser. Altre cose non cambiarono affatto: Joe Louis rimase il Campione del Mondo di Pesi Massimi e i Redskins di New York vinsero di nuovo il campionato nazionale di Football. Altre cose non cambiarono ufficialmente: il record mondiale per il miglio piano rimase quello di 4'06"4 stabilito da Sydney Wooderson nel 1937, ma la commissione internazionale incaricata di aggiornare i record non aveva più potuto riunirsi dalla fine del 1938 e il record attuale era stato superato varie volte, tra cui dallo svedese Arne Anderson con 4'02"6.
Walter Lippmann pubblicò U.S. Foreign Policy, mentre Jacques Maritain pubblicò Christianity and Democracy. Waksman e Schatz scoprirono la streptomicina. Il Campionato Mondiale dell'Associazione Professionisti di Golf fu annullato a causa della guerra.
La morte colse Beatrice Webb e Sergei Rachmaninov.
Mel Brooks era ancora Melvin Kaminsky.
Nel mondo reale fu un'altra buona annata, nonostante il fatto che la maggioranza degli scrittori e dei fan fosse sotto le armi o avesse altri impegni.
Le notizie però non furono totalmente positive. Astonishing Stories chiuse in aprile, e l'amata Unknown Worlds pubblicò l'ultimo numero in ottobre... e entrò di colpo nella leggenda.
Ma nel mondo reale succedevano cose strabilianti: Fritz Leiber pubblicò Gather Darkness. E apparvero anche Donovan's Brain di Curt Siodmak e The Lost Traveller di Ruthven Todd, come pure Judgement Night di C.L. Moore, The Book of Ptath di A.E. van Vogt e Perelandra di C.L. Lewis. Alcuni di questi erano dei serial pubblicati su riviste e per parecchi anni non avrebbero visto la pubblicazione in volume. Donald A. Wollheim offrì del nuovo terreno da pascolo con The Pocket Book of Science Fiction, la prima antologia di fantascienza in paperback. E James H. Schmitz fece il suo viaggio inaugurale nella realtà con Greenface, in agosto.
La morte colse Stephen Vincent Benét, A. Merritt e The Spider.
Ma fremevano ali lontane, mentre nascevano Joe Haldeman, Christopher Priest, James Baen, Mick Farren, Robert M. Philmus, Cecelia Holland, Chris Boyce e Ian Watson.
Torniamo allora indietro nel tempo, a quel favoloso anno 1943 e godiamoci le migliori storie che il mondo reale ci ha lasciato in eredità.
La caverna
The Cave
di P. Schuyler Miller
Astounding , gennaio
P. Schuyler Miller era un uomo tranquillo che rappresentò anche una delle figure più potenti della fantascienza dal 1951 alla sua morte. Il suo potere (di cui non abusò mai) derivava dal fatto di essere in quegli anni il recensore librario di «Astounding» e in quanto tale contribuì a definire i «classici» del settore. Negli anni che vanno dal 1930 ai primi Anni Quaranta fu anche un abile e costante collaboratore di varie riviste di fantascienza, sebbene poi pubblicasse solo un'antologia, The Titan (1952), ora di difficile reperimento. Con L. Sprague de Camp scrisse anche un romanzo dal titolo Genus Homo (1950).
The Cave, il racconto qui riportato, è una storia imperniata su Marte, argomento abbastanza familiare, che però qui viene trattato in modo vigoroso e assolutamente originale, tanto da farne una delle più insolite tra le migliori storie del 1943.
(Qui è evidente l'influenza di John W. Campbell, che non avrebbe mai permesso sulla sua rivista il Marte tradizionale in voga allora. Il Marte di Edgar Rice Burroughs o addirittura quello di Ray Bradbury non era affatto gradito. Campbell voleva il Marte astronomico e lo ottenne, fra gli altri, da P. Schuyler Miller che era geologo. Naturalmente le nostre conoscenze di Marte sono enormemente progredite nei quarant'anni che sono trascorsi dal tempo in cui apparve questo racconto e (ahimè) se oggi venisse scritto questo racconto non potremmo immetterci anche dei marziani. Ciò nonostante, il punto di vista espresso in questa storia è chiaro e assai toccante e vale la pena di considerare che il testo fu scritto e pubblicato quando era in pieno svolgimento la II Guerra Mondiale. I.A.)
La caverna misurava meno di trenta metri da un'estremità all'altra e si apriva alla base di un costone di pietra calcare che si levava come una gigantesca pinna arrotondata nel deserto. L'imboccatura era un ovale schiacciato, un'alcova poco profonda scavata nella morbida pietra dal vento e la sabbia. Vicino a una delle estremità scendeva lievemente verso il costone una galleria dalle pareti lisce che a sei metri dall'entrata svoltava bruscamente a destra e subito dopo svoltava di nuovo a sinistra in direzione parallela a quella originaria. Qui proseguiva in piano, trasformata in un ampio canale piatto alto poco più di un metro e venti. Questa era la parte principale della caverna.
La grande volta, come il resto della caverna, era stata scavata nella pietra dallo scorrere dell'acqua tanto tempo prima. L'acqua aveva seguito una venatura meno resistente nella roccia e aveva scavato un passaggio il cui basso soffitto si alzava e abbassava irregolarmente nello strato sovrastante più duro e il cui pavimento era a tratti piano e levigato dall'acqua, mentre in altri era sepolto sotto un'argilla giallastra e molto fine. Poco oltre il punto di mezzo, la volta si apriva su una specie di fumaiolo capovolto in cui un uomo anche alto poteva stare in piedi, un camino affusolato che rimpiccioliva rapidamente fino a ridursi a uno stretto cunicolo in cui sarebbe passata appena una mano umana. Qui il pavimento della caverna era più basso e le pareti che si erano ravvicinate a meno di tre metri erano incrostate di depositi di carbonato di calcio.
Al di là del camino, il soffitto precipitava di colpo a pochi centimetri dal pavimento. Qui, un uomo di sottile corporatura, sarebbe riuscito a infilarsi solo sdraiandosi col viso a terra e divincolandosi tra gli strati ineguali della roccia e dopo aver percorso una distanza pari a circa tre volte la sua lunghezza sarebbe stato in grado di sollevarsi su un gomito e mettersi a sedere con la schiena contro la parete terminale della caverna e la testa e le spalle incuneate in un crepaccio che tagliava il passaggio principale ad angolo retto. Questo crepaccio si trovava proprio sotto la parte più alta del costone e svaniva nelle tenebre in alto e su entrambi i lati. Un tempo doveva esservi corsa dell'acqua attraverso, sulle pareti di calcare risaltavano degli strati di più duro silicio che spiccavano in leggero rilievo come sottili linee tirate col righello su una pietra color nero fuliggine. Ma adesso non alitava neppure dell'aria.
Sei metri all'entrata sinuosa, due metri o due metri e mezzo alla curva, altri nove per arrivare al camino e cinque o sei ancora per arrivare alla parete sul fondo; era una piccola caverna. Ed era anche molto vecchia.
Il calcare di cui era formato il costone era forse la massa pietrosa più vecchia ancora esposta sulla superficie di quel piccolo e vecchio pianeta. Un tempo, quando dove adesso c'erano i deserti, c'erano stati i mari, la roccia si trovava a una certa profondità sott'acqua. C'era stata della vita in quei mari e dove il vento o l'acqua avevano portato via la calce più morbida, i loro corpi fossili risaltavano sulla superficie della pietra grigia. C'erano delle conchiglie scanalate, simili a trombe nere e lucenti, sciami di minuscole cose dai grandi occhi con fantastiche armature e molti tentacoli, lunghe strisce di delicate erbe dai denti a sega, i cui tessuti fossilizzati erano macchiati di rosso cupo, frammenti occasionali di qualche essere più grosso, come un pesce dal corpo corazzato e la testa a punta. Tutte queste cose erano state vive e sciamavano e si riproducevano in quel mare poco profondo, quando la Terra era ancora solo un globo tormentato di fiamme che andavano lentamente smorzandosi.
La caverna stessa era molto vecchia. Era stata formata dallo scorrere delle acque ed era ormai passato tanto tempo da quando c'era stata tanta acqua su quel mondo morente. L'acqua, mista agli acidi del suolo, trasudava dal nero humus del pavimento di una foresta, era filtrata nella rete di piani congiunti che intersecavano i piatti letti di calcare, corrodendone la pietra tenera e trasformando le fessure in crepacci e i crepacci in grotte a volta alta, fluendo impetuosamente lungo gli strati più impervi e sboccando poi alla fine all'aperto alla base di un cornicione muschioso per precipitare gorgogliando sulle rocce e infine unirsi a un ruscello, a un fiume o al mare.
Milioni di anni erano ormai passati da quando c'erano stati fiumi e mari su Marte.
Le cose mutano lentamente sottoterra. Quando una caverna è morta, quando cioè le fonti di umidità che l'hanno creata sono filtrate o si sono inaridite, essa può rimanere immutata per secoli e secoli. Può venire un uomo che posa il piede sull'argilla del pavimento e se ne va, e poi centinaia o migliaia o decine di migliaia di anni dopo, può venire un altro uomo che vede ancora lì quell'impronta, fresca come se fosse stata fatta solo il giorno prima. Un uomo può scrivere sul soffitto col fumo di una torcia e se c'è ancora qualche traccia di vita nella caverna e umidità nella roccia, ciò che ha scritto si imprimerà sulla pietra e durerà per sempre. Possono cadere pezzi di roccia dal soffitto e coprire parte del pavimento, o chiuderne per sempre i passaggi. Può tornare l'acqua e cancellare via tutto ciò che è stato scritto o coprirlo con uno strato di melma. Ma se una caverna è morta, se l'acqua ha cessato di scorrere e le pareti e il soffitto sono asciutti, ben raramente cambia qualcosa.
La maggior parte della superficie di quel pianeta era rimasta deserta per più milioni di anni di quanto qualcuno avesse calcolato. Dall'imboccatura della caverna, dune e costoloni di roccia si stendevano a perdita d'occhio come i rilievi cremisi lasciati su una spiaggia dal passaggio di un'onda. Ma in questo caso si trattava più di polvere che di sabbia: polvere rossastra, ricca di sali ferrosi, resa sempre più impalpabile dallo sfregare di un grano contro l'altro, in una macinatura di secoli e secoli. Questa polvere si era accumulata in abbondanza nell'alcova e si riversava sull'apertura della caverna; copriva il primo corridoio di sei metri di un tappeto simile a una striscia di velluto rosso e parte di essa girava attorno all'angolo della galleria per arrivare nel breve passaggio incrociato. Solo la polvere più fine, quasi impalpabile, rimaneva sospesa nell'aria quel tanto che era sufficiente per superare la seconda curva e raggiungere la volta principale. Ne era passata abbastanza da stendere un sottile manto rugginoso su ogni superficie orizzontale della caverna e perfino sul nero sedimento in fondo alla caverna, dove l'aria non si muoveva mai, c'era un morbido fiore rosso sul deposito giallastro del carbonato di calcio.
La caverna era vecchia. In essa vi avevano trovato rifugio animali. C'erano ancora le impronte sull'argilla disseccata, accanto alle pareti, fatte prima che la creta si indurisse. Non c'era polvere in quei punti, gli animali vi si rifugiavano ancora quando ne sentivano il bisogno. In una fenditura dietro un masso caduto dall'alto c'erano gambi sfilacciati e foglie di qualche pianta del deserto, disposti in modo da formare un nido. C'erano anche mucchietti di escrementi, per lo più composti di gusci chitinizzati di creature simili a insetti e di cellule non digeribili di alcune piante. Sotto il camino il soffitto era annerito dal fumo e c'erano frammenti di legna carbonizzata e di ossa bruciate mescolate alla polvere del pavimento. In alcuni punti l'argilla era stata sbeccata e spostata per fare più spazio alla testa, o per pianeggiare un punto in cui poter depositare una ciotola. E c'era anche altri segni.
Il grak raggiunse la caverna poco dopo l'alba. Aveva corso tutta notte e mentre il sole sorgeva aveva visto l'ombra del costone delinearsi in una lunga linea nera sulle dune rossastre e si era rivolto in quella direzione. Aveva corso coi lunghi salti instancabili degli abitanti del deserto, coi piedi palmati che affondavano solo leggermente nella morbida polvere, là dove un uomo del suo stesso peso sarebbe affondato fino alle caviglie.
Era un giovane maschio, più alto delia maggioranza degli altri esseri della sua specie, più muscoloso e più in carne. La sua pelliccia era liscia e folta, nero gaietto con delle sfumature brunastre. I colori sulle sue guance erano freschi e brillanti e i suoi occhi tondi e neri brillavano come dischi di carbone polito.
Era da meno di una stagione che faceva il cacciatore. La sua tribù era una delle bande di predoni che trascorreva l'estate nelle oasi settentrionali, per calare poi in inverno a depredare le terre basse, quando l'asciutto altopiano diventava troppo freddo e nudo perfino per una razza resistente come la loro, una razza che se l'era cavata finora meglio di altre perché aveva avuto pochi contatti con gli uomini. Il grak portava un coltello che aveva ricavato da sé da una sbarra di venti centimetri di rame al berillio che si era procurato durante la sua prima incursione. Era l'unica cosa umana che possedesse. Il coltello aveva l'impugnatura d'osso, su cui erano stati incisi gli intricati simboli del clan del suo ramo paterno e la lama lucente era stata affilata come un rasoio su entrambi i lati. Era il più bel pugnale che gli abitanti del deserto avessero mai visto e aveva dovuto lottare più di una volta per conservarlo. Le tribù del deserto conservavano ancora le vecchie arti della lavorazione dei metalli, arti che i pastori delle terreverdi abituati a vita più comoda ormai avevano dimenticato, e la sua tribù, quella di Begar era la migliore tra i fabbri del deserto.
Il grak portava il pugnale infilato nel corto kilt di pelle intrecciata che costituiva il suo unico indumento. Il Vecchio del suo ramo paterno glielo aveva dato il giorno in cui lui era diventato un cacciatore e non poteva più correre nudo come un cucciolotto. Era un indumento morbido, reso cedevole ormai dal lungo uso, e lucidato ad olio fino ad assumere una tinta bruno mogano quasi scura e ricca come i disegni che aveva sul petto. Su di esso c'erano anche delle macchie scure che sapeva essere di sangue, perché il vecchio era stato uno dei più feroci assassini del suo ramo familiare e il kilt gli era stato trasmesso, quand'era giovane, da un guerriero ancora più grande di lui. Il disegno stesso in cui le sottili strisce di pelle di zek erano state intessute aveva perso il suo significato originario, sebbene non ci fossero dubbi che quel significato fosse stato e fosse ancora di grande valore.
Faceva freddo all'ombra del costone e il lungo pelo del grak diventava automaticamente lanuginoso per fornire un maggiore isolamento, mentre lui, come un grosso falco nero, scrutava il cielo occidentale fiutando il vento col naso a becco. All'orizzonte c'era una striscia bruna e bassa che prendeva colore man mano che sorgeva il sole. Quella notte, parecchio tempo prima, il grak aveva fiutato un temporale perché possedeva quei soprannaturali poteri meteorologici tipici della sua razza ed era sensibile ad ogni minimo mutamento dell'atmosfera. Si era avviato verso il braccio più vicino delle terreverdi con l'intenzione di chiedere ospitalità al primo villaggio che avrebbe trovato, ma il fronte del temporale si muoveva più rapidamente di quanto corresse lui. Aveva scorto quel costone proprio appena in tempo.
Avvicinandosi aveva riconosciuto quel posto, anche se non l'aveva mai visto e nessuno della sua tribù aveva visitato quella regione del deserto da tante stagioni. Quei punti di riferimento facevano parte dell'istruzione di ogni cucciolo delle terreasciutte e finché non si erano impresse indelebilmente nel suo giovane cervello grinzoso nessun cucciolo poteva sperare di passare le prove per diventare cacciatore e acquisire i diritti dei cacciatori. La caverna era proprio dove sapeva sarebbe stata e fece una leggera risatina quando vide il simbolo roso dal tempo inciso sulla pietra al di sopra dell'apertura. Il popolo del deserto aveva ormai da tempo abbandonato l'arte della scrittura, non avendone la minima necessità, ma il significato di certi segni erano stati trasmessi di generazione in generazione in quanto costituivano una parte molto pratica del loro folklore. Questa era una caverna che gli antenati stessi del grak avevano usato e segnata.
Il grak studiò i segni nella polvere attorno all'entrata della caverna. Non era il primo che vi cercava rifugio. Le membrane pennute del suo naso scivolarono fuori dalla loro guaina ossea registrando i deboli odori che permanevano ancora nell'aria sottile. Gli odori gli confermarono quanto gli avevano detto gli occhi. La caverna era occupata.
Il vento si stava rapidamente intensificando. Demoniaci vortici di polvere rossa roteavano davanti al fronte avanzante delle nubi. Rosse piume scivolavano via dalla sommità di ogni duna. Il grak emise il segnale che arrivava in pace, si piegò e si infilò nella caverna. Al di là della seconda curva del passaggio c'era un buio che neppure i suoi occhi di gufo abituati alle notti del deserto riuscivano a penetrare. Ma non aveva bisogno di vedere. I suoi sensibilissimi organi del tatto inseriti nella sgargiante pelle delle sue guance raccolsero delle vibrazioni infinitesimali nell'aria immobile che gli dissero con precisione dove si trovavano gli ostacoli. Aveva le orecchie aguzzate, pronte a cogliere il minimo suono. Il suo naso colse un miscuglio di odori... il suo odore caratteristico personale, l'odore asciutto e leggermente muschioso della caverna stessa, e gli odori delle altre creature con cui avrebbe dovuto dividerla.
Le identificò una per una. C'erano quattro o cinque piccole creature del deserto che avevano più loro da temere da lui che lui da loro. C'era un rettile che in altre circostanze avrebbe potuto essere pericoloso e che avrebbe potuto ancora diventarlo se si fosse interrotta la pace. E c'era uno zek.
Il carnivoro era grosso e quasi altrettanto intelligente del guerriero. La sua specie conduceva una guerra eterna contro gli armenti del popolo delle terreverdi e raramente si spingeva a visitare le oasi, ma quando uno di loro entrava nel deserto allora veniva considerato il nemico più temuto da tutte le tribù delle terreasciutte, perché osava rubare i cuccioli perfino accanto ai fuochi dei campi e attaccava impunemente i cacciatori adulti, tanto che la preda più ambita di un cacciatore che volesse dimostrare la propria abilità era proprio la sua pelle chiazzata. Per alcune delle tribù più barbare del nord esso era addirittura qualcosa di più di un mostro... era il Suo emissario.
Un'improvvisa folata di vento dal passaggio alle sue spalle avverti il grak che il temporale stava ormai per scoppiare. Nel giro di pochi minuti, l'aria all'esterno sarebbe stata irrespirabile. Il grak cominciò a recitare a bassa voce, per non sollevare i sospetti della bestia, il rituale della pace. Mentre lo iniziava, teneva le dita sull'impugnatura del pugnale, ma mentre le sillabe si sgranavano in quelle tenebre risonanti, le narici gli dissero che l'odore della paura stava diminuendo. In un punto imprecisato della caverna, una zampa cornea graffiò l'argilla asciutta e una delle creature più piccole emise istantaneamente una zaffata di terrore, ma lo zek non reagì. La pace gli stava bene così. Spostandosi con cautela, il grak trovò un cavo nel muro accanto all'entrata e si sedette in attesa, rannicchiato con le ginocchia ritirate sotto il ventre impellicciato e con la dura roccia alle spalle. Il pugnale lo posò sul pavimento, a portata di mano, dove in caso di bisogno avrebbe potuto afferrarlo rapidamente. Per un po' i suoi sensi rimasero febbrilmente all'erta, ma poi gradualmente la tensione andò calando. Erano tutti quanti dei grekka lì dentro... tutti esseri viventi uniti nella comune battaglia per l'esistenza contro una Natura malvagia e crudele. Conoscevano tutti la legge e la fratellanza e avrebbero mantenuto la tregua finché fosse durato il temporale. Adagio adagio le palpebre nictatorie gli scivolarono sugli occhi aperti e il grak sprofondò in un sonno leggero.
Harrigan capitò nella caverna per puro caso. Non sapeva nulla di Marte e dei suoi deserti, eccetto ciò che la Compagnia riportava sui suoi manuali e ciò era maledettamente poco. Era un uomo grosso e forte, nato su montagne che richiedevano una tolleranza superiore alla norma per l'altezza e aveva dovuto passare meno di una settimana nella cupola prima che lo trasferissero nel nuovo posto di lavoro nel Sabaeus orientale. Era un uomo che faceva sempre ciò che gli si diceva e nulla di più, che metteva da parte la paga ogni settimana in attesa della grandiosa baldoria che sarebbe seguita quando l'avrebbero riportato a casa con la prossima opposizione e non provava altro che disprezzo per i nativi marziani: Grekka li chiamavano, e questo era tutto ciò che sapeva di loro, altro non gli importava. Per lui avevano l'aspetto di animali e quindi erano animali, nonostante il fatto che sapessero parlare e costruissero case e tenessero armenti di certe mostruosità dalle gambe a piolo che sembravano fare da bestiame. Al diavolo... anche i pappagalli sanno parlare e le formiche hanno anche loro del bestiame!
Sulla Terra, Harrigan aveva fatto il minatore. Anche qui lo faceva, ma non riusciva ad abituarsi all'idea che le piante potevano essere più preziose di tutto il rame, il tungsteno e la carnotite del mondo. Il deserto e le sue aride colline rosse lo tormentavano coi loro enigmi, e ogni volta che gli era possibile avere del tempo libero andava ad esplorarle. Il fatto che trovasse solo rocce e sabbia non serviva affatto a cancellare la sua irosa convinzione che da qualche parte su quel pianeta c'era nascosto un tesoro incalcolabile che aspettava di essere ritrovato se solo quei dannati indigeni si fossero decisi a parlare o se la compagnia avesse prestato ascolto a un uomo che conosceva i minerali meglio di quanto i grossi papaveri conoscessero gli ancheggiamenti delle proprie segretarie.
Il fatto era, naturalmente, che la compagnia sapeva molto bene che i depositi di minerali su Marte erano stati esauriti da una civiltà marziana che aveva proseguito l'inevitabile strada verso una fine inevitabile quando probabilmente Adamo e Eva avevano ancora la coda. Che poi i discendenti di quella città fossero ancora vivi, anche se ridotti a uno stato completamente selvaggio, dimostrava ampiamente la resistenza del ceppo della razza nativa. Tali argomenti, tuttavia, avrebbero significato men che niente per un uomo come Harrigan. C'erano delle miniere sulla Terra. C'erano miniere sulla Luna. Al diavolo... c'erano delle miniere anche su Marte, allora!
Questa volta aveva voluto sfidare troppo la sorte. Per lui la bassa muraglia grigia delle nubi sull'orizzonte occidentale era solo una lontana catena di colline che forse un giorno avrebbe potuto visitare e dove avrebbe potuto trovare tali ricchezze da farlo navigare nel liquore per tutto il resto della vita. Aveva passato la notte nella cabina del suo gatto delle sabbie e solo quando le nubi si erano trasformate in una incombente e bassa massa frastagliata aveva capito a cosa stava andando incontro. Aveva girato il gatto delle sabbie e aveva cercato di ritornare indietro, ma ormai era troppo tardi.
Quando il temporale si scatenò, tutto divenne come notte. L'aria si trasformò in una massa semisolida attraverso cui il gatto delle sabbie procedeva faticosamente alla cieca di modo che solo gli strumenti di bordo gli dicevano dove stava andando. La polvere intasò rapidamente la presa d'aria e Harrigan dovette tirare fuori i filtri, mettersi la maschera e sperare per il meglio. Ma il meglio non venne. In pochi secondi l'aria all'interno della cabina divenne una nebbiolina rossastra, la polvere si posava come finissimo pepe rosso su ogni superficie scoperta. Il vento si impadronì della tozza macchina e la sballottò come una barca in preda a un tifone, ma Harrigan non poté fare altro che tenersi saldo, strizzare gli occhi arrossati attraverso gli occhialoni coperti di polvere per cercare di vedere gli strumenti anch'essi coperti di polvere e chiedersi dove diavolo fosse finito. Il gatto delle nevi, semiaffondato nella polvere del deserto, si arrampicò penosamente in cima a una enorme duna, spinse il muso tozzo al di là del bordo, slittò violentemente di lato e prese a scendere. Harrigan tirò disperatamente le leve direzionali, ma queste erano occluse dalla polvere e si rifiutarono di muoversi. Non vide il costone di roccia che quando la macchina vi andò a schiantarsi contro. Il motore emise uno straziante gorgoglio, si udì un rumore di ferraglia quando i cuscinetti si ruppero e la macchina si fermò. La sabbia prese immediatamente ad accumularsi dietro e attorno al gatto delle nevi e Harrigan, rialzandosi sul pavimento della cabina, vide che se non fosse uscito alla svelta si sarebbe in breve trovato sepolto lì dentro.
Dovette lottare per uscire con fatica dal lato sottovento del gatto delle nevi e si scontrò con una bufera di vento che lo morse come un coltello di ghiaccio. Bastò che facesse un sol passo avanti per non vedere più la macchina. La polvere gli si infiltrava attraverso tutte le cuciture e i rammendi degli abiti e gli filtrava sotto gli angoli della maschera. Gli penetrava in bocca e nel naso e la sentiva sfregare sotto le palpebre rigonfie. Era dappertutto e fra breve l'avrebbe distrutto.
La macchina era ormai perduta, anche se si trovava probabilmente a meno di tre metri di distanza. Il vento gli passava accanto ululando malignamente, lacerandogli le parti mobili del giaccone e raggelandolo fino al midollo. Harrigan fece una mezza dozzina di passi alla cieca, fino al ginocchio nella polvere, e cadde in ginocchio ai piedi dell'altura. Le sue mani stese davanti al corpo toccarono della roccia solida. Allora il minatore avanzò a fatica sulle ginocchia e cercò di guardare meglio attraverso gli occhialoni incrostati. Era pietra calcare e dove c'era della pietra calcare, poteva esserci anche una caverna. Centimetro dopo centimetro tastò la superficie ineguale del costone finché improvvisamente non incontrò davanti a sé il vuoto; allora avanzò barcollando e cadde sulle mani e sulle ginocchia proprio davanti all'entrata della caverna.
Mentre cadeva, era andato a sbattere con la testa contro il basso architrave e gli ci vollero un paio di minuti prima di rendersi conto di dove si trovava. Quasi automaticamente allora strisciò in avanti finché non andò a sbattere col cranio contro un'altra parete. A quel punto si mise a sedere sui talloni e si afferrò la maschera, ormai completamente intasata di polvere e assolutamente inutile. Se la strappò dal viso e respirò lentamente. C'era della polvere nell'aria, parecchia, ma poteva respirare.
Cercò a tastoni di vedere com'era fatta quella caverna immersa nel buio e trovò un'apertura nella parete di destra. Vi si infilò a carponi. Quasi immediatamente ci fu un'altra brusca svolta e il passaggio si allargò improvvisamente su entrambi i lati e lo lasciò così rannicchiato sull'entrata di quella che capì doveva essere una caverna di buone dimensioni.
Harrigan conosceva troppo bene le caverne per correre dei rischi inutili. Quella che c'era davanti a lui poteva essere una caverna, oppure un pozzo che precipitava a qualche livello inferiore. Ma aveva la sensazione che fosse ben grande. Trovò l'angolo dove la parete di sinistra tornava indietro, vi si accostò, si inumidì le labbra con la lingua spessa e secca e gridò:
«Ohi!»
L'eco gli tornò indietro come un colpo di pistola. Sì. La caverna era grande, ma non troppo. Ciò che gli serviva adesso era dell'acqua e della luce.
E aveva entrambe. La polvere si era insinuata perfino sotto il tappo della borraccia, tanto che riuscì appena a smuoverlo sulla vite, ma alla fine, con uno sforzo disumano delle sue dita potenti riuscì a farcela. Non aveva molta acqua. Se ne lasciò sgocciolare in gola un filo, facendolo scorrere sulla lingua, ripulì la filettatura dalla polvere con un dito e riavvitò sopra il tappo. Quelle tempeste duravano a volte per giorni e giorni e per quanto lo riguardava quella era tutta l'acqua del mondo.
Poi fu la volta della luce. Harrigan aveva passato troppo tempo nelle viscere del suolo per avere paura del buio, ma era semplicemente una questione di buon senso cercare di vedere dove si era finiti. Harrigan odiava i misteri. Se avesse saputo cosa aveva di fronte avrebbe potuto lottare con le unghie e coi denti e cercare di cavarsela, ma odiava procedere alla cieca e odiava il buio.
Nel minuto o due in cui aveva tenuto aperta la borraccia era evaporata abbastanza acqua da alzare in modo apprezzabile il tenore d'umidità della caverna... almeno per i marziani. Per i loro sensi acuti quell'umidità era l'equivalente di un pesante nebbione. A pochi passi di distanza, il grak si risvegliò nel buio con un sobbalzo. Ancora più indietro nella caverna, uno dei piccoli animali si agitò e lo zek starnutì.
Il goffo arrivo di Harrigan aveva risvegliato gli occupanti della caverna e ogni occhio, orecchio e naso era stato rivolto a lui quando era apparso. Una specie di roditore, in preda al panico, aveva fatto per scappare via quando aveva colto il suo odore, solo per bloccarsi gelato dal terrore quando era quasi andato a sbattere contro lo zek. La pace per il momento si era rotta... un nuovo fattore era entrato nella situazione e occorreva adesso raggiungere un nuovo equilibrio. Tutti rimasero in silenziosa attesa degli sviluppi.
Ad Harrigan era sfuggita tutta questa attività preliminare preso com'era a cercare di scoprire dove si trovava, a liberarsi gli occhi dalla sabbia e a ingollare qualche goccia d'acqua nella gola riarsa. Ma quando lo zek starnutì, il rumore improvviso fu per lui come un'esplosione nelle orecchie. Nel silenzio mortale che seguì, percepì chiaramente i rumori di chi respirava in silenzio. Erano vicino a lui e provenivano da più di un punto. Doveva assolutamente far luce!
Avrebbe dovuto avere una torcia nella tasca della tuta, ma non c'era. L'aveva persa o l'aveva lasciata in macchina. Aveva però un accendino. Con mano frenetica cercò di azionare la lampo della tuta. Questa prese a scorrere per qualche centimetro con un rumore di tuono poi si incagliò. Col sudore che ormai gli gocciolava a fiotti dalla fronte, Harrigan si accovacciò sui calcagni e cercò disperatamente la pistola, ma non ci fu nessun movimento da parte delle cose acquattate nel buio. Lentamente, Harrigan infilò con delicatezza due dita in tasca e trovò l'accendino. Poi, sollevando la pistola e puntandola davanti a sé nel buio, sollevò l'accendino sopra la testa e lo azionò.
Lo scoppio della fiamma giallastra fu strabiliante. Poi Harrigan vide i loro occhi... dozzine di piccole scintille verdi e rosso fuoco che lo fissavano dal buio. Mentre anche i suoi occhi si ambientavano vide il grak, accoccolato come un peloso mostro nero in un canto. Gli enormi occhi rotondi del marziano lo osservavano senza espressione, la sua bocca sogghignante era leggermente aperta e mostrava una fila di denti seghettati e aveva le orecchie a punta ben distese per cogliere ogni minimo rumore. Il suo naso lucente, a becco, e le guance di un rosso acceso gli davano l'aspetto di un gufo in parte spennato. Tra le dita ragnesche stringeva un pugnale dall'aria minacciosa.
Lo sguardo di Harrigan fece rapidamente il giro delle bestie che lo osservavano. Non sapeva niente sugli animali marziani, fatta eccezione per i pochi animali domestici che tenevano gli abitanti delle terreverdi, e questi costituivano uno strano assortimento. Questi erano soprattutto piccoli animali simili a topi con grossi occhi e antenne piumate al posto del naso. Alcuni avevano la pelliccia, altri erano rivestiti di un'armatura cornea o scagliosa. Tutti quanti erano variamente decorati con fantastiche collezioni di macchie colorate, corni arricciati e spine dorsali sfaccettate che presumibilmente apparivano attraenti a se stessi o ai loro compagni. All'estremità opposta della caverna, arrotolato su un letto di erba secca, c'era una cosa sottile e maculata grande quasi il piccolo nativo che lo fissava con malvagi occhi rossi infossati l'uno vicino all'altro su un muso da coccodrillo sogghignante. Mentre lo fissava, l'essere sbadigliò orribilmente e lasciò cadere la testa sulle zampe anteriori incrociate, zampe che sembravano mani nude munite di artigli. Poi la cosa strinse gli occhi finché non divennero due sottili fessure cremisi e lo studiò con insolenza da sotto le pallide palpebre. Aveva un aspetto malvagio e le dita di Harrigan si strinsero sopra il calcio della pistola.
Il chioccio di protesta del grak lo fermò. Riuscì a distinguere una sola parola... bella, pace. Quella parola la conosceva perché a New York aveva una donna di nome Bella o almeno l'aveva avuta prima di essere assunto dalla Compagnia. E poi faceva parte di quelle quattro fregnacce che bisognava conoscere ogni volta che si parlava con uno di quei dannati vermi marziani. Era anche l'unica parola marziana che conoscesse, così la pronunciò, sia pure con disprezzo, tenendo d'occhio l'altra bestia.
Questo era il primo uomo che il grak vedeva. Era per lui una cosa mostruosa, avvolta in strati su strati di tessuto finemente intrecciato che le sue compagne dovevano avere impiegati molti anni a tessere, perfino se le loro goffe dita fossero state agili quanto quelle degli abitanti delle terreverdi che di tanto in tanto facevano cose del genere. C'era un elettrizzante problema filosofico che tormentava il giovane cervello del grak. Quell'uomo apparteneva o no ai grekka?
Per un marziano il termine grekka significa letteralmente «essere vivente». Ogni creatura nativa del pianeta è un grak; tutte le creature, singole o prese collettivamente, sono grekka. I primi uomini che presero contatto con i nativi udirono questa parola per designare i marziani stessi e ne conclusero che fosse l'equivalente marziano della parola «uomini». Graziani, naturalmente, da antropologo di gran fama qual è, comprese però immediatamente la verità, questa situazione si verifica spesso anche tra gli aborigeni umani, ma l'etichetta rimase. Né la questione in fondo era molto importante, perché la parola grekka comprendeva i nativi e aveva perfettamente senso quando veniva usata nel senso in cui avevano cominciato a usarla gli umani. Ciò che importava invece era che questa parola era anche la chiave per capire tutta l'elaborata struttura della psicologia marziana.
Milioni di anni di incessante lotta contro le forze di un ambiente ostile su un pianeta giunto a una rapida maturità e avviato a una rapida morte avevano impresso nella mente dei marziani, fossero abitanti delle terreverdi o delle terreasciutte, il fondamentale concetto che la Natura è il loro immortale nemico. La vita per essi è solo un'amara lotta contro forze impari, contro un invisibile nemico che userà ogni mezzo possibile per distruggere ogni piccola scintilla di vita in ogni rotondo cranio peloso marziano. Si ritrova questo concetto anche nelle più vecchie leggende dove l'astuto eroe indigeno sconfigge con la propria astuzia, non c'è altra parola, i maligni piani di un universo che è la personificazione di ogni malvagità.
La parola grekka è l'espressione assoluta di questa tetra filosofia. Nella battaglia per la vita, tutti gli esseri viventi, tutti i grekka, sono fratelli. Nessun marziano metterebbe mai in discussione la teoria dell'evoluzione perché il concetto base della sua esistenza è che tutte le bestie sono fratelli. Questo significa naturalmente semplificare di parecchio la questione, perché dopo questa affermazione, il grekka si va a impantanare in un complicatissimo labirinto di specificazioni e eccezioni che una razza, un tempo altamente civilizzata, è riuscita a elaborare in un periodo di milioni di anni. Il nativo marziano, sia esso abitante delle terreverdi o delle terreasciutte, aiuterà il suo fratello bestia ogni volta che questi starà per perdere la sua battaglia contro la natura, ma ci sono certe cose che l'individuo deve essere in grado di fare da sé, se non vuole dare una blasfema soddisfazione a Lui, il Gran Maligno, la personificazione del male universale e fatale che abbatte disgrazie senza fine su tutti i grekka indistintamente.
La distinzione è una di quelle cose che nessun esperto di logica riuscirà mai a comprendere a fondo. È una cosa che ha un significato per le tribù del deserto e un altro per gli abitanti delle terre basse. Il Begar traccerà la linea di demarcazione in qualche punto, il che è sacro dovere di ogni Goroub, nonostante il fatto che le due tribù abbiano vissuto fianco a fianco più o meno amichevolmente per molte generazioni. Un clan, perfino un ramo paterno, può e deve agire secondo regole che nessun altro clan su Marte può imitare senza perdere per l'eternità un variabile numero di punti nel suo gioco con Lui e i Suoi schiavi.
Ciò che al giovane grak della caverna non era chiaro era se l'uomo, in questo caso particolare Harrigan, era grekka. Se lo era, allora apparteneva anche di diritto alla fratellanza di tutti gli esseri viventi e ne era soggetto alle leggi. Se non lo era, invece, allora poteva essere solo una personificazione o una estensione del malvagio Primo Principio in persona e per questo da considerarsi un nemico. Fin dal tempo della spedizione Graziani-Flemming ogni nativo di Marte, individualmente e per tribù, ha dovuto prendere questa decisione da solo e regolare in base ad essa ogni sua relazione con l'umanità. Il Begar però aveva avuto contatti troppo scarsi con l'umanità per aver avuto bisogno di prendere una simile decisione come tribù. Adesso il giovane grak decise di riservarsi un giudizio, di tenere gli occhi aperti e di lasciare che l'uomo dimostrasse da che parte stava con le sue azioni.
Harrigan, naturalmente, non sapeva assolutamente nulla di tutto questo. Probabilmente non avrebbe avuto nessuna importanza, però, anche se avesse conosciuto la complicata filosofia marziana. Ciò che un dannato animale pensava dell'Universo non era cosa che gli interessasse.
Per un momento c'era stata la morte nell'aria. Adesso la tensione stava calando. Gli animali più piccoli si stavano di nuovo rannicchiando nel loro cantuccio. Il piccolo grak si accoccolò in un angolo sogghignando e annuendo col capo. Solo gli occhi a fessura dello zek lo studiavano ancora con fredda indifferenza. Quel dannato incubo vivente si era rannicchiato nell'unico punto della caverna in cui un uomo poteva stare in piedi! Harrigan gli restituì occhiata su occhiata e tutti i piccoli esseri pelosi e scagliosi sollevarono la testa e li osservarono mentre il grak sbatteva gli occhi, preoccupato. Tutti quanti fiutavano l'ostilità esistente tra le due creature. Lo zek sbadigliò di nuovo, mettendo in bella mostra una malvagia fila di doppie zanne taglienti come rasoi e una gola bianca da lebbroso, e flesse i possenti muscoli che spiccavano come sbarre d'acciaio modellato sulle sue spalle massicce. Harrigan si sedette, tetro in viso, nel punto in cui si trovava, con la schiena appoggiata alla fredda pietra, la pistola accanto a lui sul pavimento, l'accendino incuneato in una fenditura della roccia tra i suoi piedi.
All'esterno della caverna, la tempesta di sabbia era arrivata all'apice. Nella grossa caverna si ripercuotevano a ripetizione gli echi del lontano mugghiare del vento. Dalle tenebre arrivavano a tratti nuvolette di polvere rossastra e la fiamma dell'accendino oscillava, mettendosi poi a ballare. Nei momenti di pausa, invece, l'unico suono che si sentiva nella caverna era il respiro regolare di tutti quegli esseri. Harrigan sapeva che tutti gli occhi erano fissi su di lui. Era lui l'intruso in quel luogo e le creature stavano in guardia. Ma che si accomodassero pure! Era giusto che temessero l'uomo su quel dannato mondo di polvere!
Harrigan restituì loro un'occhiataccia, fantasticando con cattiveria sulle loro probabili abitudini. Circolavano parecchie voci in giro su come vivevano questi marziani. Harrigan sorrise sardonico al piccolo grak, ricordando un libello particolarmente insultante. Il grak gli restituì un sorriso rassicurante. Quell'uomo era un'orribile caricatura di essere vivente, ma non rompeva la pace.
Harrigan si guardò attorno per valutare la caverna. Non era poi male per essere una caverna. Era asciutta e l'angolo nel passaggio teneva fuori la polvere ed era abbastanza ampia da permettere a un uomo di stendersi sul pavimento. Provvisto di acqua e fuoco avrebbe potuto resistere finché la tempesta fosse cessata.
E notò anche che un fuoco c'era stato, proprio sotto il camino in fondo alla caverna. C'era della fuliggine sul soffitto e la roccia all'aspetto sembrava calcare bruciato. Purtroppo il camino era troppo vicino al grosso mostro per osare avvicinarsi. Meglio lasciarlo stare... ma se il mostro avesse tentato qualcosa, gli avrebbe fatto vedere lui, James Aloysius Harrigan, chi era il duro lì dentro!
Una folata d'aria più forte delle precedenti piegò quasi del tutto la fiamma dell'accendino, riducendola a un sottile filo giallo. Harrigan si piegò rapidamente e la riparò con le mani a coppa. In quel momento gli sembrò più piccola e meno brillante di quando l'aveva accesa. Sollevò l'accendino e lo scosse tenendolo vicino all'orecchio. Era quasi al secco! Lo spense, chiudendo il cappellotto.
Le tenebre che lo avvolsero furono subito soffocanti. Le invisibili pareti della caverna sembravano chiudersi su di lui, comprimendo l'aria rarefatta, e rendendogli difficile il respirare. La polvere gli entrò nel naso e nella gola. Aveva un gusto secco e metallico. C'era dentro del ferro. La polvere gli raggrinzì le membrane della gola come se fosse allume. Harrigan si schiarì la gola e si passò la lingua sulle labbra inspessite. Aveva bisogno di bere. Solo un paio di gocce. Svitò il tappo della borraccia e se la portò alle labbra.
Nelle tenebre qualcosa si mosse. Fu un rumore appena percettibile, il tic di un artiglio sulla roccia, ma Harrigan lo sentì. Istantaneamente fu in allarme. Allora era quello il loro gioco! Be', che si facessero pure sotto! In quella caverna anche loro erano ciechi quanto lui e doveva ancora venire il giorno in cui un animale avrebbe potuto fargliela!
Depose con cautela la borraccia dietro un sasso. Se ci fosse stato uno scontro lì sarebbe stata più al sicuro e poi se l'avesse tenuta con sé, avrebbe potuto urtare qualcosa e tradire la sua posizione. Poi spostò la pistola nella mano sinistra e prese a spostarsi lungo la parete fermandosi ogni pochi centimetri per ascoltare. Non riusciva a sentire altro, però, che il respiro fantasma di quelle creature. Qualunque cosa si fosse mossa, ora era immobile.
Le sue dita trovarono delle lastre di pietra calcare cadute dal soffitto e mezzo sepolte nell'argilla lungo la parete di destra. Queste lastre arrivavano fin quasi al camino, ma a circa quattro metri dal punto in cui era stato seduto c'era un'interruzione nella linea e il muro si abbassava a formare un'alcova poco profonda non più alta di mezzo metro. Lì dentro avrebbe avuto della solida roccia su tutti i lati e si sarebbe trovato proprio di fronte alla pila di erbe secche su cui riposava lo zek. Da lì avrebbe potuto sparare un colpo diretto a quel mostro tra due massi staccatisi dal soffitto.
La sua mano si abbassò a tastare per terra e toccò qualcosa di freddo e scaglioso che scappò via in fretta sotto le rocce. Si udì poi in risposta un gridolino di terrore e uno scalpiccio di piedi in fuga mentre delle piccole creature in preda al panico si sparpagliavano davanti a lui. Un essere simile a un gatto gli piombò sulla schiena e vi si aggrappò strepitando. Harrigan lo colpì con una manata e lo fece cadere per terra. Poi, a poca distanza nelle tenebre sentì di nuovo il rumore di un artiglio furtivo sulla pietra. Lo zek!
Doveva far luce! Era un suicidio affrontare quel mostro in piene tenebre! Si era infilato l'accendino nella tasca esterna della tuta, ma quando andò a cercarlo s'accorse che era sparito!
Il panico abbandonò di colpo Harrigan. Si sedette sui talloni e strinse affettuosamente le dita attorno al calcio della pistola. Più le situazioni erano difficili, più gli piacevano. L'accendino doveva essergli caduto dalla tasca aperta. Non era perduto. Ma non ne aveva bisogno. Il buio era per lui una protezione, non un nemico. Non potevano vederlo al buio.
Si mise per terra a quattro zampe. Tutto era tornato tranquillo. Se avessero tentato qualcosa li avrebbe sentiti. Era quasi arrivato all'alcova e lì sarebbe stato difficile snidarlo. Se avessero cercato di entrare, avrebbe potuto abbatterli uno per uno.
L'argilla era dura come il mattone e piena di schegge di pietra che gli graffiavano le ginocchia anche attraverso la pesante tuta. Anche il soffitto era basso; dovette strisciare sui gomiti, col viso quasi steso per terra.
Il cuore gli batteva all'impazzata. Stava facendo troppi sforzi in quell'aria così rarefatta. Rotolò su un fianco, con la schiena contro uno dei grossi blocchi di pietra e fissò le tenebre. Ancora qualche centimetro, poi avrebbe potuto mettersi tranquillo e aspettarli. Aveva bisogno di guadagnar tempo. Aveva bisogno di schiarirsi la testa. Maledì la propria stupidità per non avere portato una bombola d'ossigeno dal gatto del deserto. Sarebbe bastato respirarne una boccata sola per essere di nuovo in grado di affrontarli tutti quanti contemporaneamente a mani nude!
Quando riprese l'avanzata, qualcosa tintinnò sulla pietra accanto a lui. Lo cercò a tentoni: era l'accendino. L'aveva tenuto nella tasca posteriore. Che idiota... farsi fregare così dalle tenebre! Gli animali avevano tutti quanti paura del fuoco. Li avrebbe potuti stanare col fumo quando avesse voluto. Era lui il padrone della caverna! Un ghigno di soddisfazione gli comparve sul viso mentre proseguiva a carponi nella polvere.
L'entrata dell'alcova che stava cercando lui era quasi bloccata da una grossa lastra di pietra. Il passaggio era stretto, ma si divincolò come un'anguilla e quando fu dietro trovò che aveva parecchio spazio. Cercò a tentoni la fenditura tra i blocchi, proprio di fronte al nido, fece scivolare la pistola in posizione e accese l'accendino. Adesso!
Il nido era vuoto.
Con una imprecazione rotolò verso l'altra apertura. La fiamma dell'accendino gli mostrò l'estremità opposta della caverna, il grak rannicchiato nella sua nicchia con gli occhi dilatati... l'arcata nera dell'entrata... e lo zek!
La cosa lo aveva superato nel buio. Adesso si trovava presso l'entrata, proprio dove un momento prima c'era stato seduto lui e lo fissava da sopra la spalla... un essere orribile simile a una donnola dal muso di rettile, maculato di grigio lebbra. La cosa sogghignò nella sua direzione con occhi beffardi, poi stese la zampa quasi umana e raccolse la borraccia che lui aveva lasciato per terra!
I primi spari di Harrigan colpirono la roccia sopra la testa del mostro; la luce l'aveva accecato. I colpi seguenti si infilarono nella ruvida criniera che il mostro aveva sulla nuca. L'ultimo colpo glielo sparò a bruciapelo sul muso sogghignante. Poi l'accendino rotolò chissà dove sul pavimento e degli artigli d'acciaio gli si piantarono nel braccio.
Furono le rocce a salvarlo in quel momento. La cosa lo teneva bloccato per il braccio, ma lui aveva il corpo protetto. E aveva ancora la pistola; si rigirò, pur prigioniero della stretta del mostro e vuotò il caricatore nel buio. La stretta si allentò e il braccio gli tornò libero. Dove gli artigli dello zek gli avevano lacerato la carne adesso il braccio sanguinava. Poi, attraverso la fenditura alla sua destra, vide alzarsi una nube di fumo bianco dove l'accendino aveva toccato la massa di erbe secche nel nido del mostro.
La caverna adesso era illuminata a giorno. Harrigan vide che lo zek sanguinava abbondantemente da una ferita che gli aveva dilaniato il petto e aveva il viso che era una maschera insanguinata di furore, là dove un colpo gli aveva tracciato un lungo solco su un lato della testa. Il mostro fece forza sulle poderose zampe posteriori, afferrò un angolo del grande masso che sbarrava l'apertura con zampe simili a mani umane e tirò. I muscoli gli balzarono in evidenza grossi come gomene sulle braccia e le spalle mentre lottava con quel blocco enorme di pietra. Poi l'argilla che si era rappresa alla base del masso si sgretolò e il grande masso cominciò a spostarsi leggermente. La via era aperta. Il rifugio di Harrigan era diventato una trappola.
C'era solo una via d'uscita. Harrigan la tentò. Così si lanciò disperatamente fuori dalla nicchia, dritto nelle braccia del mostro, poi gli afferrò con le mani la mascella inferiore e spinse il muso sbavante all'indietro con tutta la forza dei suoi muscoli. Il mostro si trovò sbilanciato, lo afferrò anche lui in uno stretto abbraccio e cadde trascinandolo con sé all'aperto, straziandolo con i crudeli artigli posteriori. Harrigan strinse i denti e sentì il braccio irrigidirsi e distendersi mentre quella malvagia testa veniva spinta sempre più indietro. Come attraverso una rossa nebbiolina, vide gli occhi da gufo del grak fissarlo da sopra la spalla del mostro... e vide il baluginio ramato della luce del fuoco sul lucente pugnale. Poi sentì lo zek rabbrividire mentre la lama dalla punta acuta gli penetrava nella schiena. Il mostro cominciò a tossire... con grandi colpi di tosse che gli squassavano il corpaccio. Le sue braccia si strinsero convulsamente attorno a Harrigan e gli piantò gli artigli nella schiena mentre il coltello di rame lo colpiva ancora ripetutamente. Poi, lentamente, cominciò a mollare la presa. Il mostro era morto.
Le erbe ormai avevano quasi finito di bruciare e il fuoco si era ridotto a poche scintille. La polvere che si era sollevata durante la lotta rimaneva sospesa come un velo rosso nell'aria. Harrigan era sdraiato per terra e fissava attraverso la nebbiolina il piccolo nativo, mentre cercava di riempire i polmoni torturati con quell'aria così rarefatta. Quel piccolo verme gli aveva salvato la vita! Si asciugò il sangue e si ripulì il viso dalla polvere con la manica, quindi si alzò lentamente in piedi. Dovette chinarsi per non sbattere con la testa contro il soffitto. Quel pugnale... era un'arma umana. Chissà dove l'aveva presa il grak...
Fece un passo verso di lui, ma prima di farne un altro il coltello gli si infilò nel ventre, appena sotto lo sterno, all'insù, in direzione del cuore.
Accoccolato nelle tenebre, il grak si chiese, mentre ascoltava il lontano mormoreggiare della tempesta, cosa sarebbe successo se l'uomo non fosse entrato nella caverna. Lo zek era stato un alleato infido: presto o tardi avrebbe probabilmente rotto la tregua. Una volta scatenata la sua sete di sangue, era stato naturalmente necessario ucciderlo. Ma se l'uomo non fosse arrivato, forse quella necessità non sarebbe sorta.
L'uomo era stato molto astuto. Il grak era stato quasi certo che l'uomo fosse ciò che aveva finto di essere. Ma come sempre c'era stata una cosa, un piccolo dettaglio, che l'aveva tradito. Non conosceva la legge dell'acqua.
In ogni situazione dubbia, rifletté acutamente il grak, c'era qualche particolare quasi insignificante in cui la Fonte del Male o i suoi emissari finivano col rivelarsi. Qualche particolare in cui un vero grak era chiaramente distinguibile dalle forze della Natura contro cui doveva sempre combattere. Bisognava essere svelti a cogliere queste discrepanze... e svelti a reagire di conseguenza.
Il particolare dell'acqua era proprio alla radice stessa della legge in base alla quale tutti i grekka, tutti gli esseri viventi, esistevano. Era la cosa che tutti dovevano avere, la cosa che nessuno, secondo la legge, poteva sottrarre agli altri. Senza di essa non avrebbe potuto esserci la vita. Con essa, ogni essere vivente ricavava forza sufficiente per continuare a combattere contro l'eterno nemico.
L'uomo aveva portato l'acqua nella caverna. Secondo la legge tutti i grekka dovevano parteciparne a seconda delle loro esigenze. Ma quando lo zek aveva cercato di prendere la sua parte, l'uomo aveva cercato di ucciderlo. E con quel piccolo particolare si era rivelato essere non un grak, ma uno dei Suoi esseri malvagi. Così era morto. Così, ancora una volta, la fratellanza di tutti gli esseri viventi aveva riportato la vittoria contro l'Universo.
Ora lui avrebbe composto una canzone su questo avvenimento e l'avrebbe cantata davanti ai fuochi della sua tribù. Poi, una volta cessata la tempesta di sabbia, avrebbe inciso un segnale sulla roccia soprastante l'entrata della caverna, cosicché gli altri che fossero arrivati lì avrebbero saputo. E la caverna stessa, dove i suoi antenati erano venuti ad accendere i loro fuochi, avrebbe mantenuto per sempre così il corpo dello zek e quello dell'uomo, l'uno a fianco dell'altro, a eterna testimonianza di quanto era successo.
Halfling
The Halfling
di Leigh Brackett
Astounding Stories , febbraio
Leigh Brackett, insieme a C.L. Moore, fu negli anni Quaranta una delle principali autrici di fantascienza. La sua produzione fu di altissima qualità, sia nel campo della space opera che della sword and sorcery, e comprende memorabili romanzi come Shadow Over Mars (1951), People of the Talisman (1964) e Sword of Rhiannon (1953), che erano già apparsi su rivista negli Anni Quaranta e nei primi Anni Cinquanta. Il suo libro più importante è il pacato, ma poderoso The Long Tomorrow (1955), una delle più belle opere sull'argomento postatomico che siano mai state scritte. Famosa a Hollywood come sceneggiatrice cinematografica (aveva appena completata la prima stesura della sceneggiatura di The Empire Strikes Back poco prima della morte), aveva raggiunto negli Anni Settanta il successo commerciale con la trilogia dal titolo The Book of Skaith.
The Halfling rappresenta una delle sue migliori opere degli Anni Quaranta.
(Sono sempre stato un entusiasta di Leigh, sia sotto l'aspetto letterario che quello umano. Il ricordo più nitido che ho di lei è di averla vista una volta a una convention e di esserle andato incontro di corsa (in quei tempi lontani ero più giovane anche se essenzialmente io sono un essere senza tempo), gridando «Leigh! Leigh!» Quando l'ho raggiunta, l'ho abbracciata alla vita e l'ho sollevata in aria facendola roteare. (Leigh non era certo un piumino, ma come ho già detto in quel tempi lontani ero più giovane). Ora, come gesto d'affetto fu delizioso, e sono sicuro che Leigh l'abbia apprezzato, almeno in senso teorico. Ma praticamente no di certo, perché nel maltrattarla a quel modo le feci prendere una terribile distorsione alla schiena (involontariamente, vi assicuro) e la povera Leigh dovette muoversi come una sciancata per tutto il resto della Convention. I.A.)
I - Venere Primeva
Stavo osservando il tramonto, un tramonto molto speciale tra quelli tipici della California e ciò mi fece sentire meravigliosamente, perché era il primo che vedevo da nove anni. Avevamo piantato le tende sui pianori tra Culver City e Venice e potevo sentire il profumo del mare. Io ero nato in un bugigattolo di Venice, in California, e non avevo mai trovato nessun altro profumo simile a quello dell'aria fredda e salmastra e pulita del Pacifico... in nessun punto di tutto il sistema solare.
Me ne stavo tutto solo su un lato del circo. Dietro di me si sentivano i soliti rumori del circo quand'è ora di dare da mangiare alle bestie e gli addetti stavano piantando le ultime tende. Ma io non stavo affatto pensando al Circo Interplanetario di Jade Greene, Le Meraviglie dei Sette Mondi Vive sotto i Vostri Occhi.
Io stavo ricordando il John Damien Greene che correva a piedi nudi su una spiaggia bagnata, oppure che cercava di pescare del pesce persico in cima al molo e sognava in grande. Chissà dove era finito quel John Damien Greene con tutti i suoi sogni? Adesso ormai non me li ricordavo quasi più.
Dietro di me qualcuno mi disse con voce dolce: «Il signor Greene?»
Di colpo smisi di pensare a John Damien Greene. Quello era un tipo di voce dolce e vellutata garantita per farvi dimenticare anche come vi chiamate. Mi voltai.
Lei era splendida come la sua voce, non c'erano dubbi. Dai talloni bronzei alla testa misurava un metro e sessanta e i suoi occhi erano più violetti delle colline di Malibu. Aveva un delizioso naso a bottoncino e una boccuccia rosata che sorrideva solo quel tanto da mostrarle dei denti bianchi e perfetti. Il vestito di stoffa metallica bronzea che indossava, fasciava uno chassis assolutamente privo di imperfezioni. Cercavi invano di trovarne qualcuna.
Lei abbassò la testa, così potei vedere come gli ultimi raggi del sole giocavano sui suoi capelli d'oro brunito.
«Mi hanno detto che lei era il signor Greene. Se mi sono sbagliata...»
Parlava con un leggero accento foresto, solo quel tanto da apparire affascinante.
Io le risposi: «Sì, infatti sono Greene. Posso fare qualcosa per lei?» Continuavo a non trovare niente che non andasse in lei, ma continuavo lo stesso a guardare. La pressione sanguigna doveva essermi salita a trecento.
È difficile descrivere una ragazza come quella. Si poteva dire che è alta un metro e sessanta ed è bellissima, ma non si può passare sopra quegli strani occhi leggermente inclinati o sopra la forma della sua bocca o sopra quel non so che emana, come una luce dalla lampada, e che ti strega irrimediabilmente e da cui non ti libererai mai più neanche se vivessi mille anni. Lei rispose: «Sì. Potrebbe offrirmi del lavoro, lo sono una danzatrice.»
Scossi la testa. «Mi spiace, signorina. Ma ho già una danzatrice.»
Il volto di lei aveva un'espressione d'acciaio sotto quella morbidezza che ricordava tanto un gattino. «Non faccio solo per parlare,» insistette la ragazza. «Mi serve un lavoro per mangiare. Sono una brava danzatrice. La migliore che lei abbia mai visto. Mi guardi bene.»
Non avevo fatto altro fino a quel momento. Adesso però strabuzzavo gli occhi. Non ci si poteva davvero aspettare che un bambolino simile avesse tanto sprint in corpo. Non si stava vantando a sproposito, Me lo faceva semplicemente constatare.
«Ciò non toglie che abbia già una danzatrice,» le dissi ancora, «una pupa marziana dagli occhi verdi che è bravissima e che mi strapperebbe la testa se l'assumessi. E la strapperebbe anche a lei.»
«Oh,» fece lei. «Mi spiace. Credevo che fosse lei il proprietario del circo.» Mi fece riflettere su quell'affermazione, poi sorrise. «Lasci che le mostri.»
Mi era così vicina che percepii il sottile e aromatico profumo che aveva addosso. Ma mi aveva fatto smettere di essere semplicemente un tizio che chiacchiera con una bella ragazza. Adesso ero Jade Greene, il padrone del circo, con le cicatrici sulle nocche delle mani e un brutto muso, e uno spettacolo da mandare avanti.
Uno spettacolo da due soldi, se vogliamo, quello spettacolo, ma qualcosa che era figlio mio... qualcosa cui bisognava dare da mangiare, che bisognava verniciare e che necessitava di combustibile. Se la piccola aveva qualcosa che mancava a Sindi, qualcosa che avrebbe attirato clienti paganti, be', allora Sindi avrebbe dovuto fare buon viso a cattiva sorte e accettare. E poi ormai Sindi cominciava a esagerare, quasi fosse lei la proprietaria del sottoscritto.
La ragazza mi osservava in viso. Non disse altro, non si mosse neppure. La guardai torvo.
«Dovrà firmare un ingaggio per tutta la tournée. Lunedì prossimo partiremo per Venere, poi andremo su Marte e magari raggiungeremo gli Asteroidi.»
«Non m'importa. Qualsiasi cosa pur di mangiare. Qualsiasi cosa pur di...»
Si bloccò di colpo e piegò di nuovo la testa e improvvisamente vidi delle lacrime sulle sue folte ciglia brune.
«Va bene,» le dissi. «Venga sotto il tendone e le darò un'occhiata.»
Per me ero anche tentato di ingaggiarla per quanto c'era avvolto in quella stoffa bronzea... ma gli affari sono affari. Non mi servivano i cavalli zoppi.
Un po' scossa, lei disse: «Lei non si arrende facilmente, vero?» Attraversammo il piazzale diretti verso il cancello principale. Stava ormai scendendo la notte umida e fresca. Verso sinistra proprio verso la catena ricurva delle colline villacee, le sottili torri bianche di Culver, Westwood, Beverly Hills e Hollywood cominciavano a mostrare un arcobaleno di tinte sotto i riflettori che le illuminavano.
Tutto era pulito, nuovo e grazioso. Solo la nebbiolina e il profumo del mare erano vecchi.
Eravamo vicini al cancello adesso e incespicavamo un po' nella penombra che seguiva il tramonto. Improvvisamente un'ombra scaturì tra due tende.
L'ombra si spostò irregolarmente, con agili balzi silenziosi, e non era un'ombra umana anche se la cosa camminava su due piedi. La ragazza trattenne il fiato e si rannicchiò contro di me. L'ombra ci girò tre volte attorno come impazzita, poi si fermò.
C'era qualcosa di soprannaturale in quell'improvvisa immobilità. I capelli mi si rizzarono sulla nuca. Furioso, feci per aprire la bocca.
L'ombra si allungò verso il cielo che andava oscurandosi e emise un guaito come Lucifero quando cadde dal Cielo.
Imprecai. Le luci del circo si accesero rompendo la notte con un cerchio luminoso bianco-azzurro.
«Laska, vieni qui!» gridai.
La ragazza cacciò un grido.
Le misi un braccio sulle spalle. «Non c'è pericolo,» le dissi, poi aggiunsi: «Vieni qui, mostro! Hai rifatto il pieno, eh?»
Avrei voluto aggiungere delle altre cose, ma la ragazza mi aveva mandato il cervello in pappa. Laska scivolò furtivo verso di noi. Non biasimai la danzatrice per aver gridato. Laska non era affatto bello a vedersi.
Il mostro non era molto più alto della ragazza, anzi sembrava più basso perché aveva le spalle ingobbite. Indosso aveva solo un paio di aderenti calzoncini da bagno, scuri, e nient'altro, a parte una criniera a forma di croce di fine pelliccia azzurro-grigia che gli attraversava le spalle e gli scendeva giù per la schiena, dalla sommità tra gli occhi alla lunga coda. Trascinava la coda per terra e l'estremità si torceva come un serpentello. Sul petto e sugli avambracci aveva dell'altro pelo morbido che gli arrivava fino al ventre striminzito.
Lo afferrai per la collottola e gli diedi uno scrollone. «Dovrei fracassarti le costole! Abbiamo uno spettacolo tra meno di due ore, lo sai?»
Il mostro mi guardò. Le pupille dei suoi occhi giallo-verdastri erano ridotte a due strette fessure sottili, ma erano fredde d'odio. Il bagliore delle luci mi mostrarono l'umidore dei suoi denti aguzzi e bianchi e la ruvidezza della lingua rosata.
«Lasciami andare. Lasciami andare, umano!» la sua voce era rauca e tradiva un accento alieno.
«Certo, ti lascerò andare,» gli dissi schiaffeggiandolo in pieno viso. «Ti lascerò andare dalle autorità preposte all'immigrazione. Non ti piacerebbe, eh, vero? Non avresti neppure del caffè per tirarti su il morale prima di morire.»
Gli artigli aguzzi spuntarono rapidi dalle sue dita dei piedi e delle mani, si flessero con ferocia e poi rientrarono di nuovo.
Lo mollai.
«Torna dentro. Cerca il medico e digli di rimetterti in sesto. Non me ne frega niente di quello che fai nel tuo tempo libero, ma saltami ancora uno spettacolo e avrai finito di lavorare con me. E chiamerò quelli dell'Ufficio Immigrazione. Chiaro?»
«Chiaro,» rispose Laska imbronciato e arrotolò la rossa lingua sopra i denti. Scoccò un'ultima occhiata gelida alla ragazza e si allontanò senza fare il minimo rumore.
La ragazza si scostò da me, rabbrividendo. «Co... cos'era quella cosa?»
«Un uomo-gatto di Callisto. La mia maggiore attrazione. Sono piuttosto rari.»
«Ne... ne ho sentito parlare. La loro razza si è evoluta dai gatti invece che dalle scimmie come noi.»
«Detto così, forse è un po' semplicistico, ma non è lontana dalla verità. Ho tutto un serraglio di esseri del genere, raccolti in tutto il sistema solare. Non sono esseri umani, ma non sono neanche animali. Uomini farfalla, uomini lucertola, esseri con le ali e esseri con sei braccia e antenne. Hanno seguito tutti quanti delle linee evolutive tipiche dei loro pianeti natali, solo che si sono fermati prima che l'evoluzione giungesse al termine. I gattoni di Callisto sono i più aristocratici di tutto il gruppo. Hanno un quoziente d'intelligenza superiore perfino a quello di parecchi umani e non degnerebbero neppure di un'occhiata gli altri Halfling.»
«Povere creature,» osservò la ragazza con dolcezza. «Non era necessario che lei fosse così crudele con lui.»
Scoppiai in una risata. «Quel delizioso micetto sarebbe dispostissimo a cavarmi le budella, e a farlo a qualsiasi altro umano, lei compresa, solo per amore di principio. È per questo che l'Ufficio d'Immigrazione è contrario a farli entrare anche se hanno un permesso di lavoro. E quando è ubriaco di caffè...»
«Caffè? Credevo di aver capito male.»
«Oh, no! La caffeina contenuta nelle bacche di caffè terrestre a loro fa l'effetto che ha la cocaina o l'hashish su di noi. Il caffè venusiano gli dà una batosta tale che li fa impazzire e poi li uccide, ma il nostro gli dà la carica. E sono solo i drogati di caffè che si ritrovano nei circhi come il nostro. Cominciano a rendersi schiavi del caffè e poi devono continuare ad averlo, qualunque cosa debbano fare per ottenerlo.»
La ragazza rabbrividi leggermente. «Le ha parlato anche di morte.»
«Sì. Se dovesse venire rimpatriato su Callisto, la sua gente lo farebbe a brani. Sono un clan molto chiuso. Probabilmente i primi umani sbarcati su Callisto non hanno dimostrato molto tatto, oppure quegli esseri ci odiano solo perché noi siamo diversi da loro e loro non potranno mai essere come noi. Comunque sia, però, le loro leggi tribali gli impediscono di avere a che fare con noi, se non per ucciderci. Nessuno sa molto di loro, ma ho sentito dire che hanno una religione molto simpatica che ricorda i buoni vecchi Thugs di un tempo e la loro adorata Dea Kalì.»
Feci una pausa poi, a disagio, aggiunsi: «Mi spiace di averlo dovuto maltrattare davanti a lei, ma bisogna tenerlo al suo posto.»
La ragazza annuì. Dopo non dicemmo altro. Passammo davanti al tendone centrale e davanti ai baracconi ancora in allestimento che presto avrebbero mostrati il getak marziano, lo shalil venusiano e quel gioco che gli aborigeni di Mercurio giocano con crani umani. Tutti imbrogli? Certo... ma ai merli piace essere gabbati e bisogna pur vìvere...
Non riuscivo a distogliere gli occhi dalla ragazza e pensavo, se danza come cammina...
Lei non prestò grande attenzione ai grossi poster tridimensionali e a colori naturali che pubblicizzavano lo spettacolo dei fenomeni viventi. Passammo davanti al tendone dei mostri e improvvisamente lì dentro scoppiò l'inferno. Io ormai ho raccolto un discreto assortimento di animali in tutto il sistema solare e queste bestie fanno dei rumori bizzarri quando sono eccitati. Adesso lo erano, e molto.
Emettevano suoni di paura e di tristezza. Una volta nelle celle della Prigione Lunare avevo udito il lamento dei carcerati e i rumori erano gli stessi... creature forti, piene di vita, chiuse in gabbia che si rodevano l'anima per questo... un ululare di odio, di paura e di nostalgia quale non si sarebbe mai potuto immaginare senza sentirlo. Un ululare selvaggio che raggelava il cuore.
La ragazza appariva terrorizzata. Le misi di nuovo un braccio attorno alle spalle e la sensazione, per me, non fu davvero spiacevole. In quel momento dal tendone uscì Tiny.
Tiny è un venusiano, un tipico prodotto di quelle giungle immense, un paio di piani più piccolo dell'Empire State Building e il miglior guardiano di zoo che abbia mai avuto, ubriaco o sobrio che fosse.
«Ho detto e ripetuto a Laska di girare al largo da qui,» si mise a sbraitare. «I miei piccoli fiutano il suo odore. E adesso li sente!»
Non era davvero necessario ascoltare con attenzione per sentirli. Credo che il fracasso che i suoi «piccoli» facevano arrivasse almeno fino a New York. Aveva espressamente vietato a Laska di avvicinarsi al tendone degli animali, perché il suo odcre i faceva letteralmente impazzire. Non sapevo se con quelle urla lo volevano chiamare da animale a animale o se invece ne erano terrorizzati considerandolo qualcosa di innaturale. Gli altri Halfling in genere si comportavano come si deve, ma a Laska piaceva provocare guai tanto per il gusto di farlo.
«Laska è di nuovo pieno fino agli occhi,» dissi. «Adesso l'ho mandato dal medico. Tu cerca di calmare i piccoli poi manda uno degli inservienti in cucina e avverti il cuoco che se d'ora in poi si azzarda a dare a Laska un solo cucchiaino di caffè senza il mio permesso lo farò friggere nel suo stesso grasso schifoso.»
Tiny annuì con la sua enorme testa pallida e svanì, imprecando. Alla ragazza dissi: «Lei vuole sempre far parte di questo circo?»
«Oh, sì,» rispose lei. «Sono disposta a tutto fin quando qui ci sarà da mangiare!»
«Lei ha un accento davvero delizioso. Di dov'è?»
«Un po' dappertutto. Io sono nata a bordo di un'astronave in volo tra la Terra e Marte e poi sono vissuta un po' in tutti i posti. Mio padre era nel corpo diplomatico.»
«Bene, siamo arrivati» le dissi. «Entri.»
Sindi era seduta a gambe incrociate sul palcoscenico, sorseggiava thil e ascoltava musica marziana sul juke box dietro lo sbiadito schermo di tappezzeria marziana. Quando alzò gli occhi e ci vide fu evidente che qualcosa non le piacque per niente.
Si alzò in piedi. Era un'abitante del Canali Inferiori, leggera e flessuosa, e si muoveva come una gatta. Aveva occhi allungati color smeraldo e capelli neri in cui erano inseriti campanellini fermati da treccine e alle orecchie aveva appesi grappoli di minuscole campanelline. Indosso aveva una pelle di leopardo delle sabbie marziane, il minimo che la legge la costringesse a portare. Era veramente qualcosa che valeva la pena di guardare, ma in quel momento aveva la dolcezza di una muraglia di filo spinato.
«Salve, Sindi,» le dissi. «La piccola qui presente vuole fare una prova. Vuoi scendere di lì, per favore?»
Sindi squadrò la ragazza dall'alto in basso. Poi sorrise, scese dal palcoscenico e mi posò una mano sul braccio. Quando si muoveva tintinnava tutta come una pioggerellina leggera e lontana, e le sue unghie mi si piantarono con cattiveria nel braccio.
«Che musica desideri, piccola?» dissi tra i denti.
«Io... mi chiamo Laura... Laura Darrow.» Gli occhi della ragazza erano molto grandi e color violetto. «Non avrebbe Venere Primeva di Enhiali?»
In tutto il sistema non ci sono più di una mezza dozzina di danzatrici che possono rendere giustizia a quella collezione di musica tribale. Alcune però sono subumane e d'aspetto così selvaggio che spaventano il pubblico, per cui noi sfruttiamo quella musica solo per creare l'atmosfera e attirare la folla.
Feci per protestare, ma Sindi sorrise e chinò indietro il capo facendo tintinnare le campanelline. «Ma certo. Mettilo su, Jade.»
Mi strinsi nelle spalle e andai a trafficare col juke box. Quando tornai indietro, Laura Darrow era già sul palco e attorno a lei si era raccolta parecchia gente. Sindi doveva aver fatto passare in giro la voce. Mi aprii il passo tra un gruppo di uomini lucertola venusiani e mi sedetti. C'erano anche tre o quattro piccoli uomini farfalla di Phobos che se ne stavano appollaiati tra le corde per non correre il rischio che le loro ali delicatissime si rovinassero nella calca.
La musica ebbe inizio. Laura si liberò delle scarpe con un calcio e cominciò a ballare.
Credo di non aver respirato neanche per un secondo di tutto il tempo che lei rimase su quel palcoscenico. E non ricordo che altri abbiano respirato. Rimanemmo tutti immobili, con gli occhi spalancati, sudando d'estasi e provando di tanto in tanto qualche brivido, mentre la musica rullava attorno a noi, gridava e ci avvolgeva totalmente.
Quella ragazza non era umana: era la luce del sole, l'argento vivo, una foglia portata dal vento... ma nulla di umano, nulla che fosse legato ai muscoli, alla gravità, alla carne. Quella ragazza era... oh, che diavolo!, non ci sono parole adatte. Lei era la musica stessa.
Quando ebbe finito rimanemmo tutti a lungo seduti in perfetta immobilità. Poi i venusiani, umani e mezzi umani, lanciarono tutti un grand'urlo in preda a una frenesia collettiva e il tendone parve sul punto di crollare.
In mezzo a tutto quel pandemonio Sindi mi guardò con i suoi occhi verdi dall'espressione micidiale e disse: «Immagino che sia assunta.»
«Sì. Ma per quello che ti riguarda non cambia niente, pupa.»
«Ascoltami bene, Jade. Questo circo non è abbastanza grande per noi due. E poi, ormai ti ha stregato e può anche averti.»
«Non mi ha affatto stregato. E poi, che importerebbe! Non sono di tua proprietà.»
«No, e neanch'io appartengo a te.»
«Io ho in mano un contratto.»
Sindi mi disse cosa potevo farmene di quel contratto.
«E cosa vuoi che faccia?» le gridai di rimando. «Che la sbatta fuori a pedate con quel talento?»
«Talento, bah!» ringhiò Sindi. «Quella non ha talento. È solo un mostro.»
«Come tutte le donne. Possibile che tu non sappia perdere con signorilità?»
Sindi mi spiegò perché. C'erano un sacco di argomenti che non avevano proprio senso e nessuno che fosse pubblicabile. Poi, di colpo, se ne andò, lasciandomi addolorato e un po' a disagio. C'erano diversi marziani nel circo e quella ragazza era capace di piantare grane.
Oh, al diavolo! Era il solito caso dell'artista piccata perché c'era qualcuno che la surclassava. Temperamento artistico più gelosia. E allora? Che si provasse pure a fare qualcosa. Me la sarei sbrogliata. Non era la prima volta che me la sbrogliavo con quella gente.
Mi aprii a fatica un varco per salire sul palco. Laura era assediata. Aveva un'aria terrorizzata, certi Halfling infatti hanno un aspetto da far venire gli incubi anche a dei duri, e piangeva.
«Calma, tesoro,» le dissi. «È assunta.» Sapevo che Sindi diceva la verità. Ero come stregato. Lo ero a tal punto da averne paura, ma anche se avessi potuto non avrei cercato di sottrarmi a quella malìa.
Laura mi si afflosciò tra le braccia e sussurrò: «La prego. Ho tanta fame.»
La portai via quasi di peso mentre gli uomini farfalla facevano svolazzare le loro meravigliose ali sulle nostre teste e la lodavano con le loro voci morbide e delicate.
Le offrii il pranzo nel mio alloggio privato. Lei rabbrividì quando le versai il caffè e lo rifiutò, dicendo che probabilmente non sarebbe mai più riuscita a gustarlo. Accettò invece del tè. E vidi che era veramente affamata. Pareva che non dovesse più smettere di divorare.
Alla fine le dissi: «La paga è di quaranta crediti più vitto e alloggio.»
Lei annuì.
Con la massima gentilezza le dissi: «A me può dirlo. Cosa c'è che non va?»
Mi lanciò un'occhiata stupita con quei suoi occhioni violetti. «Cosa intende dire?»
«Una danzatrice come lei potrebbe farsi ingaggiare ovunque voglia, e non certo per quei due soldi che posso pagare io. Lei si trova in qualche guaio.»
La ragazza guardò il tavolo e intrecciò le dita. Le sue unghie lunghe e rosate scintillarono.
«Non si tratta di niente di veramente grave,» sussurrò alla fine. «Si tratta solo... di qualche difficoltà per via del passaporto. Come le ho detto io sono nata nello spazio. Ma i documenti sono andati persi chissà dove e vivendo come vivevamo noi... be', sono dovuta venire sulla Terra in fretta e furia e non potendo dimostrare la mia cittadinanza, sono arrivata senza passaporto. Adesso non posso più neanche tornare su Venere dove ho i soldi e qui non posso rimanere. È per questo che desideravo tanto trovare da lavorare con lei. Lei è di partenza per lo spazio e potrà portarmi con sé.»
Sicuro, io sapevo come sbrogliarmela in questi casi. Così le dissi: «Lei doveva avere delle ragioni ben valide per correre il rischio che ha corso. Se la prendono, si deve aspettare un lungo periodo nella Prigione Lunare prima di venire deportata nel luogo d'origine.»
La ragazza rabbrividì. «Si trattava di una questione personale. Mi ha fatto perdere un po' troppo tempo... e sono arrivata troppo tardi.»
«Certo, mi dispiace,» le dissi. L'accompagnai fino alla sua tenda e lì la lasciai perché dovevo pensare a mandare avanti lo spettacolo. Contemporaneamente lanciai qualche accidente all'indirizzo di Sindi. Smisi di imprecare e la fissai spalancando tanto d'occhi quando passai davanti alla sua tenda. Stava ballando proprio lì.
Quando mi vide mi tirò fuori la lingua e io tirai avanti.
Quella sera assunsi anche un ragazzotto magro da far paura, dal viso pallido e l'aria affamata e bisognoso di lavoro. Poi lo affidai a Tiny perché desse una mano nel tendone degli animali.
II - La Voce del Terrore
Quella fu una settimana decisamente fortunata. Successe infatti che una certa stella dello schermo si presentò col marito di un'altra diva che non aveva ancora divorziato e così noi ci guadagnammo un sacco di pubblicità gratuita sia sui giornali che alla televisione. Laura andò in scena la seconda sera ed ebbe un successo tale che gli applausi per poco non fecero crollare il tendone. Per la prima volta fummo costretti a rimandare indietro il pubblico in eccedenza. L'unica cosa che mi preoccupava era Sindi. Sindi non mi rivolgeva più parola, si limitava a sorridermi coi suoi occhioni verdi come se sapesse un sacco di cose che non voleva dirmi e che non dovevano essere affatto carine.
Per cinque giorni camminai in equilibrio su un filo sospeso tra il paradiso e l'inferno. Ormai nel circo tutti avevano capito che ero cotto di Laura e immagino che dentro di loro se la ridessero alle mie spalle... alle spalle di Jade Greene, il proprietario del circo, col cervello in pappa per via di una ragazzina che avrebbe potuto essere mia figlia, una ragazzina di buona famiglia, una ragazzina con tanto di quel talento da sfigurare in un circo da strapazzo come il mio...
Io tutte queste cose le sapevo, ma non serviva a porvi rimedio. Non riuscivo assolutamente a staccarmi da lei. Era così fragile e deliziosa; quando camminava sembrava lo facesse sempre a passo di musica; i suoi occhi violetti avevano un taglio a mandorla che ti ammaliavano, e la sua bocca...
La baciai la quinta sera, proprio dietro la sua tenda quando lo spettacolo era già terminato. Era buio, là fuori, e noi eravamo soli e il suo leggero alito profumato e fragrante mi avvolse come una folata di nebbiolina salmastra. La baciai.
La sua bocca rispose alla mia, poi lei si divincolò e si staccò da me con una furia incomprensibile. La lasciai andare. Tremava tutta e respirava con fatica.
«Scusa,» le dissi.
«Oh, non si tratta di questo... oh, Jade... io...» Si interruppe. Sentivo i suoi singhiozzi soffocati in gola. Poi mi volse le spalle e scappò via di corsa e attraverso le tenebre il vento mi portò il rumore dei suoi singhiozzi.
Andai nel mio alloggio e tirai fuori una bottiglia. Dopo il primo bicchiere rimasi seduto a fissare la bottiglia sul tavolo con la testa stretta tra le mani. Non ho idea per quanto tempo fossi rimasto in quella posizione. Mi sembrò comunque un'eternità. Sapevo solo che il circo aveva ormai spento le luci e tutti dormivano profondamente sotto un manto di nebbia, quando udii Sindi urlare.
Al momento non mi resi conto che era lei. Quell'urlo non aveva personalità. Era solo la voce del terrore, del dolore assoluto e non aveva assolutamente nulla di umano.
Dal cassetto della scrivania presi la pistola. Ricordo che avevo il palmo della mano scivoloso per il sudore freddo che lo ricopriva. Poi uscii, afferrando contemporaneamente la grossa torcia elettrica che tenevo per emergenza vicino all'entrata della tenda. C'era un buio infernale là fuori, tutto era silenzioso, ma non tranquillo. C'era qualcosa in agguato al di là delle tenebre e del silenzio, qualcosa che si celava dentro di essi e respirava adagio, in attesa...
Il circo cominciò a risvegliarsi. Dopo quell'urlo fu tutto un trapestio, un correre di gente, la pace era stata alterata come quando si getta un sasso in uno stagno immobile; nel tendone dei mostri, un gatto delle sabbie marziano cominciò a uggiolare adagio e ferale e sembrava un lamento funebre.
Presi a camminare con passo svelto tra le tende, in silenzio. Avevo lo stomaco in subbuglio e la pelle d'oca; il viso cominciò addirittura a dolermi per la tensione. Il raggio della torcia elettrica che stringevo in mano era malfermo.
Trovai Sindi dietro la sua tenda, non molto lontana dal punto in cui avevo baciato Laura. Era rannicchiata a terra, col viso rivolto al suolo, simile a un'isola bruna in un mare rosso cupo. Tra le orecchie aveva ancora le campanelline.
Camminai nel suo sangue e mi inginocchiai accanto a lei e le posai una mano sulla spalla. Credevo che fosse morta, ma le campanelline tintinnarono debolmente, come oggetti lontani appartenenti a un'altra stella. Cercai di girarla.
Lei gemette: «No.» Non era una voce. Non era quasi neanche un suono. Ma riuscii a sentirlo. E lo sento ancora oggi. Allontanai la mano.
«Sindi...»
Una cascatella di tintinnì argentini, come una pioggerellina lontana... «Stupido,» sussurrò lei. «Il palcoscenico, Jade. Il palcoscenico...»
Si interruppe. Il medico sbucò da chissà dove dietro di me e mi spostò con malagrazia, ma sapevo che era ormai inutile. Sapevo che ormai Sindi non avrebbe mai più ballato.
Tutt'attorno a noi si erano raccolti umani e Halfling che ora fissavano inorriditi quello spettacolo e sussurravano tra loro, qualcuno parlava con voce isterica. Gli animali sotto il tendone erano come impazziti. Il vento della notte aveva portato loro l'odore del sangue e della morte e volevano essere liberati e far parte di quella festa di morte.
«Artigli,» disse il medico. «È stata dilaniata dagli artigli di qualche bestia. Ha la gola...»
«Si, adesso piantala,» gli dissi. Mi voltai. Dietro di me c'era l'assistente di Tiny, col viso col gesso, e fissava il corpo di Sindi con gli occhi che scintillavano come lucenti biglie marrone.
«Senti tu,» gli dissi. «Corri da Tiny e digli di accertarsi che non manchi nessuno dei suoi piccoli... intanto tutti gli inservienti e tutti gli uomini in grado di impugnare una pistola o un paletto di tenda si armino in fretta e rimangano a disposizione... Mike, prendi tutti gli uomini che ti servono e monta la guardia all'entrata del circo. Non fare entrare o uscire nessuno senza il mio permesso. E devo dartelo di persona. Tutti gli altri rientrino al coperto e non si muovano. Dovrò chiamare la polizia.»
Il ragazzo assunto da poco era ancora lì e i suoi occhi passavano da Sindi a me e facevano il giro dei volti dei presenti. Gli diedi un urlaccio e finalmente scappò via per fare quanto gli avevo detto. La folla ruppe le file.
Dalla massa si staccò Laura Darrow che mi prese per un braccio. Indosso aveva una vestaglia blu scuro e aveva i capelli sciolti sul viso. Aveva un aspetto rugiadoso, di bagno appena fatto e il suo alito era profumato. Me la scossi di dosso. «Attenta,» le dissi. «Sono tutto sporco di... sangue.»
Me lo sentivo sulle scarpe, me lo sentivo inzuppare il leggero tessuto delle gambe dei pantaloni. Lo stomaco mi balzò in gola e dovetti chiudere gli occhi per tenerlo sotto controllo, mentre la voce carezzevole di Laura cercava di calmarmi. Non mi aveva lasciato il braccio: sentivo le sue dita che mi stringevano, fredde e troppo strette. Ma anche se mi faceva male, l'amavo, l'amavo tanto.
«Jade,» mi disse. «Jade, tesoro. Ti prego... ho tanta paura.»
Questo mi servì. Le misi un braccio attorno alla vita e tornammo indietro verso il mio alloggio per telefonare alla polizia. Nessuno aveva ancora pensato di accendere i grandi riflettori e il raggio della mia torcia elettrica scavava una galleria di bambagia grigia nella nebbia.
«Non riuscivo a dormire bene, stasera,» disse improvvisamente Laura. «Ero nella mia tenda, a letto, e un momento prima di sentirla urlare mi è sembrato di sentire qualcosa... come il passo felpato di un grosso gatto.»
Il pensiero che si era annidato nella parte più riposta della mia mente esplose finalmente in superficie. Non avevo visto Laska nella folla attorno a Sindi. Se Laska era riuscito a mettere le mani su del caffè in un momento in cui il cuoco non guardava...
«Probabilmente ti sei sbagliata,» le dissi.
«No, Jade.»
«Dici?» Il buio era fitto tra le tende. Ma perché nessuno si decideva ad accendere quelle dannate luci? Avrei voluto che tutti la smettessero di blaterare più o meno a sproposito così da poter ascoltare se...
«Jade. Non riuscivo a prendere sonno perché pensavo...»
Poi Laura lanciò un urlo.
* * *
La cosa uscì da un nero varco tra due tende che facevano da magazzino. Procedeva quasi a quattro zampe, con la testa appiattita in avanti e le mani strette al ventre. Aveva gli artigli snudati, bagnati di un liquido rosso e appiccicoso e anche le sue mani e i piedi erano rossi. Nei suoi occhi giallo verdastri risplendeva una luce di follia e stringeva le pupille ridotte quasi a una fessura per difendersi della luce. Le labbra erano ritratte e mostravano denti luccicanti coperti di spuma... era Laska drogato al di là di ogni limite, ormai in preda alla follia più acuta!
Non disse niente. Faceva dei rumori ma non erano parole intelligibili, da persona normale. Non era niente, solo dei rumori orribili. Quando ci vide, Laska fece un balzo.
Spinsi Laura dietro di me. Vedevo le striature che i suoi artigli avevano lasciato sulla terra e lo vidi irrigidire i muscoli quando fece per saltare. Allora sollevai la pistola e sparai tre colpi.
Le pesanti pallottole corazzate lo tagliarono quasi in due, ma non bastarono per fermarlo. Laska emise un ululato di belva impazzita e mi colpì con quei suoi artigli cercando di straziarmi. Io caddi in ginocchio e sparai di nuovo, ma Laska non si arrestò. Le sue zampe posteriori mi piantarono gli artigli nell'anca e nella coscia, servendosi di me come di una pedana da cui prendere il rimbalzo. Era la ragazza che voleva.
Laura era indietreggiata e urlava come una disperata. Sentivo attorno uno scalpiccio di piedi, tanta gente che correva e gridava. Poi le luci si accesero. Mi rigirai di scatto e afferrai Laska per la criniera di pelo lungo la spina dorsale e poi per la collottola. Improvvisamente divenne pesantissimo. Credo che fosse già morto quando gli scaricai nel cranio la quinta pallottola.
Lo lasciai cadere per terra.
«Laura, tutto bene?» chiesi alla ragazza. Vedevo i suoi capelli castani e i suoi grandi occhi violetti come stelle oscure su di un viso pallidissimo. Mi stava dicendo qualcosa, ma non riuscivo a sentire. Le dissi: «Dovresti forse svenire, non è sempre così che fanno le fanciulle?» e risi.
Ma fui proprio io, Jade Greene a svenire.
Purtroppo mi ripresi troppo presto e il medico stava ancora trafficando con la mia gamba. Lo insultai con tutte le parolacce che mi vennero in mente in tutte le lingue che conoscevo, almeno con la metà della bocca che non mi aveva bloccata col cerotto. Lui era un omone, con un gran ventre e il mento sporco.
Si mise a ridere e disse: «Sopravvivrai, vedrai. Quella bestiaccia per poco non ti ha portato via metà faccia, ma col tuo tipo di bellezza l'estetica non ne soffrirà molto. Dovrai solo startene un po' tranquillo intanto che ti rifarai un po' di sangue.»
«Col cavolo!» sbottai. «Ho un sacco di lavoro da fare, io!» Dopo un po' si arrese e mi aiutò a rivestirmi. I tagli nella gamba non erano troppo profondi e con la faccia non ci dovevo lavorare in ogni caso. Mi versai dello Scotch per rimediare al salasso subito e riuscii a raggiungere l'ufficio.
Camminavo abbastanza bene.
Ma forse era solo perché per tutto il tragitto mi appoggiai a Laura, che era rimasta ad aspettarmi per tutto il tempo fuori della tenda. Sui capelli le si erano formate goccioline di nebbia. Pianse un poco, rise un poco e mi disse che ero stato meraviglioso e mi aiutò a riprendere le forze con tutta la verve della sua vibrante personalità. Non ci volle molto perché cominciassi a sentirmi come un ragazzino che si sveglia da un incubo per ritrovarsi in una stanza in cui risplende il sole.
Quando entrammo in ufficio, la polizia era già arrivata e ci stava aspettando. Non ci furono grossi inconvenienti. Il corpo straziato di Sindi e quello dell'uomo gatto impazzito facevano sì che il conto tornasse e la deposizione del cuoco venusiano suggellò il tutto. Il cuoco, infatti, aveva l'abitudine di portarsi a letto un thermos di caffè in modo da poterne bere subito una tazza non appena sveglio... e sto parlando di caffè venusiano con tanta di quella caffeina da far andare fuori di sé un terrestre... e sufficiente a drogare irrimediabilmente un uomo gatto di Callisto. Qualcuno gli aveva sottratto quel thermos mentre non guardava e il thermos fu ritrovato nell'alloggio di Laska.
Lo spettacolo continuò. Venivano folle intere a guardare con occhi allucinati il punto in cui Sindi era stata uccisa. Io me la presi comoda per un giorno e mentre Laura mi teneva in grembo la testa mi sembrava di cullarmi in una nuvoletta dorata.
Verso il tramonto mi disse: «Adesso dovrò prepararmi per lo spettacolo.»
«Sì. Il sabato sera si fa il pienone. Domani poi smonteremo tutto e lunedì partiremo per Venere. Sarai più felice una volta arrivata lassù?»
«Sì. Mi sentirò più sicura.» Accostò la sua testa alla mia. I suoi capelli sembravano di tiepida seta. Le posai una mano sulla gola, era liscia e pulsante e mi sentivo le mani bruciare.
Laura sussurrò: «Jade, io...» un lacrimone rovente mi cadde sul viso e un istante dopo lei era scomparsa.
Non riuscivo a muovermi di lì, bruciavo e tremavo come se fossi in preda alla febbre delle paludi. E pensavo, forse...
Forse Laura non avrebbe più voluto lasciare il circo una volta arrivati su Venere. Forse sarei riuscito a indurla a non farlo. Forse non era troppo tardi per sognare, un sogno questo che John Damein Green non aveva mai fatto, quando era stato là a pescare seduto in fondo al molo e cercava di acchiappare del pesce persico.
Che follia farsi certe idee su una ragazza come Laura. Una follia pari solo a quella di tagliarsi la gola. Oh, al diavolo. Un uomo in fondo non diventa mai adulto, non supera mai quella fase in cui crede ancora che i miracoli possono anche accadere veramente.
Era bello stare lì a sognare, sognare.
Era anche una bella notte, piena di stelle, in cui spirava la brezza fresca e pulita dell'oceano, poi Tiny mi raggiunse per avvertirmi che avevano trovato il suo nuovo aiutante morto su una balla di paglia con la gola lacerata. E il gatto delle sabbie marziano era scomparso.
III - Il Circo della Morte
Ci aprimmo un varco tra la folla che si accalcava tra le tende. Un sacco di gente che si divertiva, un sacco di bambini che strepitavano e facevano indigestione di semi di jitsi mercuriano e di succo di frutta venusiano. Nessuno sapeva ancora del morto. Tiny aveva fatto catturare il gatto e rinchiuderlo in gabbia prima che potesse scappare fuori dal tendone degli animali, ancora chiuso perché lo spettacolo non era ancora iniziato.
Il ragazzo era proprio morto... esattamente come Sindi ed era stato ucciso allo stesso modo. Il suo viso contorto non era molto più bianco del solito e aveva le sopracciglia chiuse leggermente bluastre. Il corpo giaceva quasi sotto la gabbia del gatto delle sabbie.
Il gatto camminava nervosamente avanti e indietro e soffiava. Tutte e sei le sue zampe erano sporche di sangue. Attorno a me, le gabbie, i recinti e le vasche a pressione ribollivano per il nervosismo e solo gli aiutanti di Tiny riuscivano a mantenere una parvenza di calma.
«Cos'è successo?» chiesi.
Tiny si strinse nelle spalle enormi. «Non so. Era tutto tranquillo. Non si è udito neanche un grido. Come Sindi. Il ragazzo se ne stava tutto solo proprio qui dietro le gabbie. Nessuno ha visto niente, nessuno ha sentito. Solo il gatto di Marte è apparso nel corridoio centrale e ha fatto prendere uno spavento del diavolo a tutti quanti. Poi l'abbiamo catturato e solo allora abbiamo scoperto il ragazzo così come lo vede lei adesso.»
Mi voltai con aria stanca. «Chiama di nuovo la polizia e denuncia la disgrazia. Tieni fuori tutti finché non avranno portato via il corpo.» Rabbrividii. Come tutti coloro che lavorano nei circhi, anch'io sono superstizioso.
Le disgrazie arrivano sempre a tre... a tre. Sindi, il ragazzo... a chi sarebbe toccato la prossima volta?
Tiny sospirò. «Povero ragazzo. Così tranquillo, sembra dormire con gli occhi chiusi.»
«Sì.» Feci per allontanarmi zoppicando. Dopo sei passi mi fermai e tornai indietro.
«Però è strano,» osservai. «È solo al cinema che quelli che muoiono di morte violenta hanno gli occhi chiusi e composti.»
Mi chinai sopra il cadavere. Non sapevo il perché allora. Adesso sì, però. Non si può sfuggire alla maledizione del tre. In un modo o nell'altro arriva sempre a colpirti.
Col dito gli sollevai all'indietro una sottile palpebra cerulea. Dopo un istante, lo feci anche con l'altra. Tiny mi respirava pesantemente sulla spalla. Nessuno di noi disse nulla. Gli animali gemevano, sbadigliavano, si muovevano irrequieti.
Richiusi gli occhi al ragazzo e gli frugai in tasca. Non gli trovai ciò che cercavo. Mi rialzai in piedi lentamente, come un vecchio. Mi sentivo vecchio. E mi sentivo morto, più morto ancora di quel povero ragazzo dal viso di marmo.
Dissi solo: «Aveva gli occhi marrone.»
Tiny mi fissò senza capire. Fece per dire qualcosa, ma lo interruppi. «Chiama la Squadra Omicidi, Tiny. Metti qualcuno di guardia al cadavere. E manda degli uomini armati...»
Gli dissi dove mandarli. Poi tornai fuori in mezzo alla gente.
Un paio di esseri di Europa, dai piccoli corpi magri e con un'apertura alare di sei metri facevano evoluzione sopra il tendone principale, mentre sulla piattaforma antistante due altri esseri con sei mani a testa e quattro occhi su peduncoli mobili si esibivano nei loro virtuosismi. Di fronte al tendone c'era Laura che dava il benvenuto al pubblico.
Feci il giro della tenda e passai dietro, là dove l'avevo baciata, e dove Sindi era morta con le campanelline alle orecchie che tintinnavano come una pioggerellina lontana.
Sollevai il lembo della tenda e entrai.
Dentro c'era solo l'uomo addetto al juke box. Quando mi vide spense in fretta la sigaretta e disse: «Salve, capo,» come per farsi perdonare di essere stato sorpreso a fumare. Ma in quel momento non me ne fregava niente neanche se avesse dato fuoco a tutto il circo con un lanciafiamme. L'aria aveva quel profumo tiepido di chiuso che hanno tutte le tende. Il Juke box stava suonando selvaggiamente Venere Primeva di Enhali con un ritmo che ti trafiggeva come una scarica di strali.
Accesi il riflettore principale di scena e poi le altre luci. Le assi nude del palcoscenico scintillarono, fredde come la morte e cigolanti.
Le fissai a lungo.
Dopo un poco, l'uomo dietro di me disse a disagio: «Capo, cosa...»
«Zitto. Sto ascoltando.»
Delle campanelle e una voce che era il dolore trasformato in suono.
«Esci dall'entrata principale,» gli dissi. «E mandami qui Laura Darrow. Poi avverti il pubblico che stasera lo spettacolo è sospeso.»
Lo udii trattenere il respiro e poi tornare a respirare adagio. Poi si allontanò lungo il corridoio.
Tirai fuori una sigaretta, l'accesi con assurda meticolosità, spezzai in due il fiammifero e lo calpestai. Poi mi voltai.
Laura si stava avvicinando passando nel corridoio tra i posti del pubblico. Tra i capelli d'oro brunito scintillava una ragnatela di diamanti. Indosso aveva un costume aderentissimo di scaglie metalliche verde marino, con un corto gonnellino bianco che le svolazzava attorno alle cosce bianche, e portava dei sandali anch'essi di scaglie lucenti e privi di tacco. Si muoveva con il ritmo della musica, ne faceva parte, ne era compartecipe, non avevo mai visto nessuna donna muoversi come lei prima d'allora.
Era bella. Non c'erano parole per definirla. Era l'essenza stessa della bellezza.
Poi si fermò. Mi guardò in viso e vidi la tensione farle trasalire la pelle bianca e salirle su per la gola, fino alla bocca, impedendole addirittura di respirare. La musica gemeva e continuava a pulsare in quell'aria tiepida e stagnante.
Le dissi: «Togliti le scarpe, Laura. Togliti le scarpe e balla.»
Lei si mosse allora, ancora in sintonia con rullo di tamburi selvaggi, ma senza seguire la musica col pensiero. Per un istante parve ritrarsi in se stessa, contraendo e irrigidendo i muscoli per prepararsi.
«Allora sai,» mi disse.
Annuii. «Non avresti dovuto chiudergli gli occhi. Forse così non me ne sarei accorto. Forse non mi sarei ricordato che il ragazzo aveva occhi castani. Era solo un ragazzotto qualsiasi. Nessuno gli prestava attenzione. Poteva semplicemente darsi che avesse gli occhi violetti... come i tuoi.»
«Me le aveva rubate.» La sua voce era tagliente in quella musica. E aveva una tonalità sibilante che non avevo mai percepito prima d'allora e l'accento straniero era ancora più pronunciato. «Mentre mi trovavo nella tua tenda, Jade. L'ho scoperto quando sono andata a vestirmi. Era un agente dell'Ufficio Immigrazione. Gli ho trovato in tasca il distintivo e l'ho preso.»
I suoi occhi violetti mi osservavano... occhi violetti falsi quanto quelli del morto. Lenti a contatto sfumate di violetto per nascondere ciò che c'era sotto.
«Peccato che ne hai portato un paio di scorta nel caso si rompessero, Laura.»
«Se li è messi per non correre il rischio di perderle o di romperle o di farsele rubare prima di poter far rapporto. Però ha buttato via l'estrattore pneumatico. Non sono riuscita a trovarlo. E non sono riuscita a togliergli le lenti dagli occhi. Così non ho potuto fare altro che chiudergli gli occhi e sperare...»
«E fare uscire il gatto delle sabbie della gabbia perché si sporcasse le zampe nel suo sangue.» La mia voce parlava da sola. Ma faceva male. Ogni parola che mi usciva mi graffiava in gola come se avesse attaccati tanti ami da pesca, ma non potevo fermarmi.
«Per poco non l'hai fatta franca, Laura. Come l'hai fatta franca con Sindi. Si era messa di mezzo, vero? Era una donna gelosa ed era una danzatrice. Sapeva bene che nessun essere veramente umano poteva ballare comete. E te l'ha detto. Ti ha detto che eri un mostro.»
Quella parola la colpi con la violenza di un pugno. E mi scoprì i denti, bianchi, denti perfetti che ora sapevo essere falsi quanto i suoi occhi. Non desideravo vederla trasformarsi ma non potevo smettere di guardare. Non potevo.
«Sindi ti ha denunciata prima di morire,» continuai. «Solo che sono stato troppo stupito per capire cosa intendeva dire. Mi aveva detto "Il palco".»
Tutti e due abbassammo gli occhi sulle assi nude impietosamente esposte alla luce dei faretti e osservammo i graffi incisi sulle assi là dove Laura aveva danzato la prima volta a piedi nudi e aveva lasciato sul legno i segni dei suoi artigli.
Lei annuì con un lento e ferale movimento della testa.
«Sindi era troppo curiosa. Aveva frugato nella mia tenda. Non aveva trovato niente; ma vi aveva lasciato il suo odore, esattamente come ha fatto oggi quest'uomo. Allora l'ho seguita qui al buio e l'ho osservata mentre scrutava il palco alla luce dei fiammiferi. Io so muovermi rapidamente e in silenzio nel buio, Jade. La tenda del cuoco si trovava solo qualche metro dietro di questa e l'alloggio di Laska non era molto lontano da quella. Avevo sentito l'odore dei caffè del cuoco. Non mi fu difficile rubarlo e infilarlo attraverso l'apertura della tenda vicino alla branda di Laska, svegliandolo co! tocco dei miei artigli sul viso. Sapevo che non avrebbe resistito e avrebbe bevuto. Poi tornai qui prima che Sindi uscisse dal tendone per venire ad avvertirti di quanto aveva scoperto.» In quella musica malvagia e primitiva, Laura emise un morbido rumore di fusa.
«Laska sentì l'odore del sangue e ci camminò dentro, proprio come avevo previsto. Pensavo che sarebbe morto prima di trovarci... o almeno prima di trovare me... perché sapevo che avrebbe percepito il mio odore nell'aria della sua tenda e avrebbe capito chi era stato a portargli quella roba. Il mio profumo si era ormai troppo dileguato perché potesse coprire il mio odore al suo olfatto.»
Sentii l'improvviso dolore delle ferite degli artigli sul viso e sulla gamba. Laska, reso folle dalla caffeina e ormai in punto di morte, aveva capito che stava morendo e aveva desiderato con tutte le forze del suo povero cervello drogato di vendicarsi di chi l'aveva ucciso. Era Laura che voleva uccidere quella notte, non me. Io ero stato solo un intralcio da gettare da parte.
Desiderai di non averlo fermato.
«Perché?» le chiesi. «Era Laska quello che volevi. Perché non hai ucciso solo lui?»
Sotto le finte unghie di plastica di Laura scivolarono fuori dei lucenti artigli... molto aguzzi e sitibondi di sangue.
Con voce rauca rispose: «La mia tribù mi ha inviata qui per vendicare il suo onore. Mi hanno addestrata con grande cura e ci sono molti altri esseri come me che stanno in questo momento dando la caccia ai rinnegati, ai drogati come Laska che vendono l'onore della razza in cambio di denaro umano. Laska non doveva morire rapidamente. Non doveva morire senza sapere perché moriva. Non doveva morire senza che gli venisse offerta la possibilità di redimersi con una morte coraggiosa.»
«Ma io non dovevo farmi sorprendere. Ero costata tanto tempo e tanta fatica alla mia gente e non era facile sostituirmi. Avevo già ucciso sette rinnegati, Jade e dovevo fuggire. Perciò volevo aspettare di trovarmi nello spazio.»
Si interruppe. La musica mi martellava alle tempie e dentro di me ero morto e prosciugato e stavo andando in pezzi.
«Cosa avresti fatto una volta nello spazio?» le chiesi.
Sapevo già la risposta. E lei me la diede con molta semplicità e franchezza.
«Avrei distrutto tutto il tuo schifoso circo per mezzo di una piccola bomba collegata nei reattori e sarei fuggita a bordo di una delle scialuppe di salvataggio.»
Feci cenno di aver capito. Mi sentivo la testa pesante come il Monte Whitney e altrettanto inanimata. «Ma Sindi non te ne ha dato il tempo. Per prima cosa veniva la tua vita e se non fosse stato per quel ragazzotto...»
No, non si trattava semplicemente di un ragazzotto... quello era stato un agente del Servizio Immigrazione. Da qualche parte Laura doveva aver commesso un errore o forse la fortuna aveva cominciato ad abbandonarla. Un giovane dal viso di marmo che faceva quietamente il suo lavoro nell'ombra e che moriva senza un grido. Cominciai a scendere dal palco.
Laura indietreggiò. La musica si fermò con un ultimo grido lacerante e il silenzio che seguì parve l'improvviso arrestarsi di un cuore.
Laura mi sussurrò: «Jade, se ti dico una cosa, mi crederai?»
«Io ti amo, Jade.» Adesso Laura continuava a indietreggiare nel passaggio tra le file dei posti del pubblico, senza fare il minimo rumore. «Io merito di morire per questo. E morirò infatti. Credo che tu mi ucciderai dopo quanto ho fatto, Jade. Ma quando lo farai, ricordati che quelle mie lacrime che hai visto... erano vere.»
Poi si volse e corse fuori, all'aperto. Io le ero vicino. L'avevo afferrata per i capelli, ma i capelli mi restarono in mano e io rimasi impalato dentro la tenda con un'espressione attonita dipinta in viso.
Avevo disposto degli uomini di guardia là fuori. Pensavo che lei non riuscisse a passare, ma ce la fece. Si dileguò come una fragile nube presa nel vortice di una tempesta e si servì del pubblico come di uno schermo. Noi non volevamo il panico. La lasciammo andare e la perdemmo.
Ho detto che la lasciammo andare. Non ci fu possibile fare altrimenti. Ormai non si curava più di apparire umana. Era solamente felina, agilissima, non faceva il minimo rumore. Noi non potevamo sparare senza colpire qualcuno tra la folla e i nostri muscoli umani erano troppo lenti per seguirla,
Sapevo che Tiny aveva disposto degli uomini ai cancelli d'entrata e tutt'attorno al circo, in tutti quei punti da cui sarebbe potuta fuggire. Io non mi preoccupavo. Ormai era in trappola e fra un momento sarebbe arrivata la polizia. Dovevo solo usare prudenza e non scatenare il panico tra la folla, quel panico che fa impazzire la gente e che può distruggere un intero circo nel giro di pochi minuti.
Dovevo solo aspettare che lo spettacolo finisse e il pubblico se ne fosse andato. Sorvegliare l'ingresso e non farla uscire, poi catturarla. Non sarebbe mai riuscita a sfuggirci. Laura Darrow...
Chissà qual era il suo vero nome su Callisto. Chissà che aspetto doveva avere quando si faceva crescere il pelo folto sulla schiena e sulle spalle. Chissà di che colore era. E chissà perché io ero nato.
Rientrai nel mio alloggio, presi la pistola e ritornai in mezzo alla folla, circo era nel suo momento culminante; c'era un sacco di gente che si divertiva, un sacco di ragazzi al settimo cielo per la felicità, luci, risate e musica... e un tizio che si sgolava davanti al tendone degli animali per dire alla folla che le luci non funzionavano e che per un po' non sarebbe stato possibile vedere gli animali.
Per un po'. Per tutto il tempo che sarebbe occorso alla polizia per catturare chi sapevo io e per fare pulizia sotto la gabbia del gatto delle sabbie.
Le auto della polizia sarebbero arrivate a minuti ormai. Non c'era da fare altro che aspettare. Lei era in trappola. Non sarebbe riuscita a fuggire.
L'unica cosa cui non avevamo pensato è che lei non ci avrebbe neanche provato.
Una tigre delle grotte mercuriane lanciò un grido acuto che fu ripreso dai cavalli zebrati di Io con voci profonde e stridule e a loro si unirono in coro tutti gli altri animali coi loro sibili, i loro ruggiti, i loro ringhi e le loro strida e tanti altri suoni che non hanno neppure un nome. Io mi bloccai di colpo e a poco a poco tutti coloro che erano presenti nel circo si fermarono e prestarono ascolto.
Per un lungo istante si poté udire il silenzio sotto le tende e sugli spiazzi. La gente non respirava più, ma aveva improvvisamente negli occhi un'espressione vitrea generata dalla paura e aveva la pelle gelida per quella sensazione di terrore che trascendeva l'umanità stessa. Poi tra la folla si levò un mormorio concitato, dapprima soffocato, che preludeva al panico.
Mi aprii un varco a fatica tra la gente e raggiunsi la più vicina piattaforma e mi arrampicai sopra. Si udivano degli spari deboli e inutili in mezzo allo strepitare degli animali.
«Ehi, gente!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola. «Ascoltatemi! Non è successo niente di grave. È solo uno dei nostri gattoni che ha male al pancino. State tranquilli, non c'è nessun pericolo. Pensate solo a divertirvi!»
Avrei voluto dire loro di filare via di corsa dal circo, ma sapevo che se l'avessero fatto un sacco di gente sarebbe stata travolta e sarebbe morta calpestata. Qualcuno riaccese la musica, ad alto volume, assurda. Ma servì a rompere quella cappa di ghiaccio che era scesa sul circo. La gente cominciò a rilassarsi e a ridere nervosamente e a parlare con voce troppo alta. Io scesi dalla piattaforma e corsi verso il tendone degli animali.
Tiny mi raggiunse sull'entrata. Il suo viso era una macchia bianca indistinta. Lo afferrai e gli dissi: «Per amor di Dio, non riesci a farli tacere?»
«C'è lei là dentro, capo... come un'ombra. Nessuno la sente, nessuno la vede. Ma un uomo è morto. Lei ha liberato i miei piccoli. E...»
All'interno si udirono altri spari e uno degli animali lanciò un lacerante urlo di dolore. Tiny gemette.
«I miei piccoli figli! Non ci sono luci, capo. Lei le ha distrutte.»
«Non farli uscire» gli dissi. «Procurati la luce da qualche parte. C'è aria di tempesta là fuori. Se quella folla impazzisce...»
Poi entrai. Le lame di luce delle torce elettriche sciabolavano in tutte le direzioni nel buio, gli uomini sudati per la tensione imprecavano e su tutto, sull'odore dolciastro del sangue fresco si udiva un puzzo di corpi caldi e selvatici.
Qualcuno ficcò la testa dentro l'apertura dei tendone e gridò: «È arrivata la polizia!»
Di rimando gridai: «Avvertila di far sgomberare il circo se ci riesce senza provocare panico. Dì loro che...»
Qualcuno lanciò un grido. In quelle tenebre nere come la pece ci fu un improvviso scaturire di luce, palle scarlatte, verdi e gialle rotolarono verso di noi, macchie di morte non più grandi di un pugno... le lucciole di Ganimede dal pungiglione micidiale. Laura aveva aperto anche la loro gabbia.
Ci sparpagliammo per affrontare le lucciole. In un punto imprecisato una gabbia si rovesciò con fracasso. Si udì un rumore di corpi impazziti, di passi felpati sulla terra battuta... poi chissà dove, al di sopra di tutto quel fracasso, si levò una voce che era dolce e serica e selvaggia che lanciava richiami isterici alle bestie e ai quali le bestie rispondevano.
In quel momento capii perché il tendone degli animali sembrava impazzire quando c'era in giro Laska. Non per paura... ma per affinità. E Laura parlava con loro e loro rispondevano.
La chiamai per nome.
La sua voce mi arrivò dal nulla di quelle tenebre soffocanti, umana e addolorata, in cui si sentiva una traccia di lacrime. «Jade! Jade, vattene via di qui... mettiti al sicuro!»
«Laura, non farlo! Per amor di Dio...»
«Del tuo Dio o del mio? Il nostro Dio ci impedisce di conoscere gli umani se non allo scopo di ucciderli. Cosa ne diresti se noi dovessimo tenere gli uomini come tu tenevi Laska?»
«Laura!»
«Vattene via di qui! Intendo ucciderne il più possibile della tua razza, prima che uccidano me. Adesso libererò tutti gli animali e li scatenerò all'interno del circo. Mettiti al sicuro!»
Sparai un colpo di pistola nella direzione da cui proveniva la sua voce.
E lei rispose dolcemente: «Non ancora, Jade. E forse non ci riuscirete mai.»
Mi sottrassi a fatica a uno sciame di lucciole che cercavano di colpirmi coi loro pungiglioni velenosi. Le porte delle gabbie si aprirono con un grande clangore. Delle gole selvagge emisero suoni profondi e ruggirono e improvvisamente tutta la parete laterale del tendone, tagliata in cima, cadde a terra e non fu più possibile tenere gli animali all'interno.
Fuori si levò un lacerante urlo di terrore tra la folla e poi scoppiò il panico.
Sentivo le urla di Tiny che faceva uscire i suoi uomini armati di corde, reti e fucili. Un essere enorme si aggirava nelle tenebre lanciando orribili strida e mi sfiorò nella sua corsa folle prima di infilare l'apertura centrale, travolgendo anche parte del tendone. Io gli ero abbastanza vicino e riuscii a liberarmi subito.
Mi arrampicai di nuovo su ciò che restava della piattaforma. C'era tanta luce all'esterno adesso, luci bianco azzurre e abbacinanti che mi mostrarono una folla di gente che correva urlando tra le tende, calpestandosi a vicenda in una folle corsa verso le uscite, incalzata da un'orda di animali, finalmente liberi dalle gabbie che cercavano solo di uccidere. E in testa a quegli animali... una figura agile e flessuosa vestita di un verde risplendente.
Non riuscivo a vederla chiaramente. Forse non volevo vederla. E anche in quel momento si muoveva bellissima come al ritmo di una musica selvaggia... e adesso aveva anche la coda.
Non avevo mai visto un panico peggiore, neanche quando una banda di abitanti delle paludi Nahali avevano assalito il nostro circo e io ero un ragazzotto qualsiasi del Triangolo Planetario.
L'obitorio sarebbe stato pieno quella notte.
Gli uomini di Tiny formavano un esile cordone di protezione tra la massa della folla e gli animali. Gli animali avevano dovuto fare il giro del tendone, sbucando dal lato più lontano, e questo aveva dato appena il tempo agli uomini di organizzarsi. Adesso scaricarono addosso agli animali tutte le loro armi, ma non fu sufficiente.
Alla testa degli animali c'era sempre Laura che li guidava. Al di sopra di quel fracasso infernale sentivo la sua voce che li incitava. Gli animali si sparpagliarono tra le tende. Un gatto delle sabbie marziano cadde morto, un cavallo zebrato scalciò negli spasmi della morte... e fu tutto. Laura non era stata toccata e adesso era scomparsa.
Io mi staccai dalla folla e mi riparai in uno spazio temporaneamente sgombro dietro una tenda. Poi estrassi il fischietto e lanciai il richiamo dell'adunata. Un kibi dalla testa serpentina di Titano cercò di sorprendermi e di squarciarmi il ventre con la sua coda a doppia punta. Gli scaricai addosso tre pallottole a punta dolce e un istante dopo una mezza dozzina di agili uomini farfalla presero a svolazzarmi sulla testa, lanciando strida di terrore e roteando gli occhi febbricitanti verso di me.
Gli dissi cosa volevo e mentre ero lì che gridavo, ecco scendere in picchiata con le loro grandi ali gli esseri alati di Europa. E anche loro mi ascoltarono.
Alla fine dissi: «Qualcuno di voi ha visto da che parte è andata?»
«Di là.» Uno degli uomini farfalla mi fece un cenno indicandomi una direzione tra le tende. Allora chiamai due degli esseri di Europa e mentre gli uomini farfalla volavano via per trasmettere i miei ordini, gli uomini uccello mi sollevarono in aria e mi trasportarono al di sopra della folla.
Gli animali attaccavano la fiumana di gente ai fianchi e abbattevano gli umani in preda a una folle estasi. C'era una sottile nebbiolina salmastra e odore di sangue nella brezza notturna e ormai tutte le porte delle gabbie erano aperte.
Gli uomini uccello mi deposero e ripartirono per fare quanto avevo detto loro. E io mi inoltrai solo tra le tende pericolanti.
Tutto quanto era successo non aveva richiesto più di cinque minuti. Gli esseri come loro si muovono in fretta. Ora che gli esseri alati di Europa furono scomparsi alla vista erano ritornati gli uomini farfalla che, una volta individuate le belve in libertà, volteggiavano su di esse per guidare gli uomini... gli uomini e i mostri.
Mostri col dorso a placche corazzate e sei braccia, armati di fucili a gas lacrimogeni e reti; uomini lucertola veloci e forti, armati dei loro stessi denti e dei loro artigli e di qualsiasi cosa fossero riusciti a trovare; uomini ragno che dal corpo emettevano lacci fatti con la loro stessa ragnatela; e gli esseri di Europa che bombardavano in picchiata i cavalli zebrati con i gas lacrimogeni.
Furono proprio i mostri a vincere la battaglia. Furono loro a salvare le vite umane, la reputazione delle loro specie e il circo. Senza di loro, solo Dio sa quanti sarebbero morti quel giorno. Vidi gli uomini farfalla tuffarsi in picchiata nel fitto della folla e prendere al volo i bambini che correvano il rischio di venire calpestati per portarli in salvo. Tre di loro morirono in quelle operazioni di salvataggio.
Io proseguii da solo.
Ormai ero oltre la folla, al di là del branco degli animali. Ricordavo la voce di Laura che diceva: «Non ancora, Jade. E forse non ci riuscirete mai.» Pensavo alle barriere che erano cadute e a tutta la California che si stendeva inerme là fuori. Sentivo le grida convulse della folla e il fracasso delle tende che crollavano e i lamenti dei morenti... i lamenti della mia gente, gente umana che Natura aveva fornito di artigli.
Pensavo...
Si sentivano crepitare i fucili, le urla disumane degli animali, il frullare convulso delle ali nel riverbero abbacinante dei riflettori, il calpestio sulla terra battuta. Camminavo in silenzio, un silenzio che io stesso mi ero costruito tutto attorno a me come un guscio protettivo...
Quattro enormi felini scivolarono furtivi fuori dall'ombra. C'era abbastanza luce da permettermi di vedere i loro occhi selvaggi, i loro denti snudati e la loro lingua che ansava con ferocia.
Attraverso il telone delle tende mi arrivò la voce di Laura, un po' tremula forse ma sempre dura e impervia come il metallo azzurrino della mia pistola.
«Io me ne vado, Jade. Prima pensavo che non fosse possibile, ma invece ce la farò. Non cercare di fermarmi. Ti prego, non cercare di farlo.»
Avrei potuto andare a cercare un poliziotto. Avrei potuto chiamare gli uomini e mezzi uomini perché mi dessero una mano. Ma non lo feci. Non so se sarei riuscito a farmi sentire e poi avevano già abbastanza da fare. E poi... questo era un lavoro che toccava a me.
Era il mio lavoro, il mio circo, il mio cuore.
Mi avviai verso l'entrata della tenda, sempre tenendo d'occhio i felini.
Questi si scostarono un poco, pancia a terra, emettendo rauchi lamenti. Uno era un gatto delle sabbie marziano a sei gambe, e aveva circa le dimensioni di un leopardo terrestre. Due provenivano da Venere, bellissime belve bianche di quegli altipiani. Il quarto era un gatto delle caverne di Mercurio e si muoveva in tutta la sua possanza su otto formidabili gambe e una coda nervosa con punte d'osso.
Laura li chiamò. Non so se parlò nella loro lingua o se la sua voce era solo un mezzo per trasmettere telepaticamente il suo pensiero da un cervello all'altro, ma comunque fosse la compresero.
«Jade, se te ne vai, non ti faranno niente.»
Sparai.
Uno dei bianchi gatti venusiani venne centrato tra gli occhi dalla pallottola e cadde senza un lamento. Il suo compagno mise uno stridulo singhiozzo e mi si lanciò addosso spalleggiato dalle altre due belve.
Sparai un altro colpo contro il gatto marziano. Poi venni travolto, mi lasciai cadere e rotolai di fianco. Il bianco venusiano mi fu sopra, e i suoi artigli giunsero a lacerarmi la camicia. Gli piantai una pallottola nel ventre. La belva ululò, piantò le zampe posteriori per terra e fece per spiccare un salto. Con la coda dell'occhio vidi il marziano morente abbrancare selvaggiamente il gatto di Mercurio, solo perché era l'essere a lui più vicino.
Vibrai un violento calcio in faccia al venusiano. Il dolore dovette accecarlo quel tanto da fargli sbagliare la mira. Al secondo balzo le sue zampe anteriori arrivarono a toccare l'estremità dei miei muscoli deltoidi, lacerandomi la pelle, ma senza toccare i muscoli stessi. Aveva fauci immense, spalancate fino quasi allo stomaco.
Avrei dovuto morire allora. Non so come mai non sia successo, so solo che anche se fosse andata così non mi sarebbe importato poi molto. Ma a morire sembra che siano sempre coloro che più intensamente desiderano vivere. Quelli che se ne fregano durano in eterno.
Sul viso sentii una zaffata di fetido alito caldo e nella schiena mi si aprirono cinque solchi paralleli dove le sue zampe posteriori mi colpirono quando rotolai al suolo. Gli sparai un calcio nella pancia. I suoi denti si chiusero con uno scatto secco a pochissimi centimetri dal mio naso e in quel momento riuscii a piazzargli la pistola proprio sotto la mascella. E fu tutto. Mi erano rimasti quattro colpi nel caricatore.
Mi liberai del cadavere della belva e mi girai. Il gatto marziano era morto. Quello di Mercurio mi fissava al di sopra di esso coi suoi quattro occhi pallidi e febbricitanti facendo schioccare la coda spinata.
E Laura osservava noi.
Ora aveva ancora l'aspetto che aveva avuto quella volta del nostro primo incontro. Morbidi capelli di oro brunito, occhi violetti leggermente a mandorla e una morbida boccuccia rosa. Indosso aveva quell'abito di stoffa metallica color bronzo e babbucce bronzee e non c'era assolutamente nulla di diabolico in lei. In quella penombra sembrava emanare caldi riflessi metallici, bronzei.
Piangeva, ma non c'era dolcezza nelle sue lacrime.
Il gatto spostò nervosamente gli occhi verso di lei e emise un lamento impaziente. Lei gli parlò e la belva si acquattò sul ventre, contrariata.
«Me ne vado, Jade,» disse Laura.
«No.»
Sollevai la mano che impugnava la pistola. Anche il gattone si sollevò sulle zampe. Laura si trovava al di là della belva. Avrei anche potuto sparare al gatto, ma quegli esseri di Mercurio vivono a lungo dopo essere stati colpiti.
«Butta via quella pistola, Jade, e lasciami andare.»
Non mi importava se il gatto mi avesse ucciso. Non mi importava affatto se Monna Morte mi avesse preso in groppa in quel momento. Immagino che fossi come impazzito. Forse i miei sensi si erano come paralizzati. Non so. So solo che guardavo Laura e affogavo nei battiti strazianti del mio cuore.
«No,» ripetei.
Dalla gola di Laura uscì solo un leggerissimo sussurro e il gatto balzò. Si rizzò sulle quattro gambe posteriori e cercò di colpirmi con gli artigli delle quattro zampe frontali. Solo che io non mi trovavo più dove lui credeva che fossi. Avevo capito che stava per balzare e mi ero sottratto... senza andare troppo lontano naturalmente perché non sono un superuomo, ma giusto quel tanto perché i suoi artigli mi sfiorassero lasciandomi il segno, ma senza sbudellarmi. Poi l'enorme testa si abbassò per azzannarmi.
La colpii sul muso con tutte le mie forze con la pistola e il dolore fu sufficiente a sbalestrare la belva per una frazione di secondo. Non di più. Ma così ebbi il tempo di piazzargli la bocca della pistola nell'occhio più vicino e sparare.
Laura stava scappando tra le tende, correva veloce a testa bassa e sembrava solo una bella ragazza che si mescolava con la folla che defluiva dal circo. Chi l'avesse notata si sarebbe limitato a emettere un fischio d'ammirazione.
Io non ebbi il tempo di allontanarmi. Mi lasciai cadere sul ventre e il gatto mi piombò addosso. Desideravo vivere solo un paio di secondi ancora. E dopo... che andasse come andasse!
Il gattone lanciava urla strazianti e falciava l'aria con le zampe dagli artigli protesi. Io mi trovavo proprio tra le due serie di gambe. Le zampe arrivavano abbastanza vicine da toccarmi mentre arpionavamo la terra. Io mi feci piccolo, sperando che non si accorgesse che ero proprio sotto di lui. Tutto sembrava succedere molto lentamente, con fredda precisione. Posai la mano destra sul polso sinistro per avere un appoggio stabile e sparai tre volte contro Laura, mirando con grande cura e centrandola tra le scapole.
Il gatto smise di dimenare le zampe. Il suo peso mi schiacciava. Capii che era morto. Sapevo di essere riuscito a fare qualcosa che in nove casi non riesce neanche ai cacciatori più esperti. La mia prima pallottola aveva trovato la strada per giungere fino al minuscolo cervello del gattone e l'aveva ucciso.
Ora non avrebbe più potuto uccidermi. Mi districai da quel corpaccio. Sul circo era ormai quasi sceso il silenzio, la folla era scomparsa e gli animali erano quasi tutti sotto controllo. Colpii il gatto morto con un calcio. Era morto troppo presto.
La pistola era scarica. Ricordo che il percussore aveva battuto per ben due volte a vuoto. Avevo delle altre pallottole in tasca, ma le mie dita intorpide si rifiutavano di prenderle su. Buttai via la pistola.
Poi mi avviai in quella fredda nebbiolina verso la scogliera là dove i flutti si frangevano in lontananza senza fermarsi mai.
Eran Birbizzi i Borogovi
Mimsy Were the Borogoves
di Lewis Padgett (Henry Kuttner e C.L. Moore)
Astounding , febbraio
Henry Kuttner e C.L. Moore sono stati indubbiamente la coppia di scrittori marito e moglie che più ha avuto successo nella storia della fantascienza. Infatti, sebbene abbiano prodotto separatamente delle memorabili storie prima del loro matrimonio avvenuto nel 1940, le loro opere migliori sono state quelle che hanno prodotto in collaborazione... in realtà è stato assolutamente impossibile accertare chi abbia scritto certe cose e chi altre, indipendentemente dalla loro firma, anzi non lo sapevano neppure loro stessi e noi in questa serie di antologie tratteremo tutti i loro racconti come se fossero stati scritti in collaborazione, anche se in qualche caso ci azzarderemo a fare qualche supposizione basandoci sulle nostre conoscenze fantascientìfiche. Il loro contributo alla fantascienza fu di varia natura e massiccio e nel periodo che va dal 1943 al 1947 si può ben dire che abbiano dominato il mercato fantascientifico, almeno quello delle riviste.
La prima delle loro cinque storie contenute in questo volume Mimsy Were the Borogoves è un autentico classico che combina una impressionante logica interna, una tragica prospettiva e magici «doni» provenienti dal futuro. Questa storia racconta anche delle cose profonde sulla natura e la complessità del divario che sembra essere esistito tra una generazione e l'altra.
(Non posso certo mettermi a confutare il punto di vista di Marty che Kuttner e la Moore siano stati la coppia di scrittori marito e moglie che più ha avuto successo in campo fantascientifico. Naturalmente ce ne sono state anche altre; Damon Knight e Kate Wilhelm, per esempio sono l'esempio contemporaneo più notevole, sebbene non credo che scrivano opere in collaborazione.
Per quanto mi riguarda personalmente, posso dire che mia moglie Janet Jeppson ha pubblicato due romanzi di fantascienza e diversi racconti. Se non avesse cominciato così tardi nella vita (il fatto di essere una psichiatra e psicoanalista le porta via un sacco di tempo sia per l'aggiornamento che per la pratica), chissà... forse avremmo potuto anche noi fare faville. I.A.)
Non cercherò di tentare di descrivere Unthahorsten né l'ambiente in cui si trovava, intanto perché erano passati svariati milioni di anni dal 1942 d.C. e poi perché Unthahorsten, tecnicamente parlando, non si trovava sulla Terra. Se proprio vogliamo dire che stava facendo qualcosa, diremo allora che stava in piedi, per così dire, in un qualcosa che equivaleva a un laboratorio... e si apprestava a collaudare la sua macchina del tempo.
Ma, una volta attivata l'energia, improvvisamente Unthahorsten si avvide che la Cassa era vuota. La cosa era un guaio serio, perché l'apparecchio richiedeva un mezzo di controllo, un solido tridimensionale che avrebbe reagito alle condizioni di un'altra epoca. In caso contrario al ritorno della macchina Unthahorsten non avrebbe potuto determinare il luogo e il tempo raggiunti. La presenza di un solido nella Cassa invece sarebbe stata sufficiente per misurare i cambiamenti, sia nella qualità che nella quantità, una volta rientrata la macchina stessa, in quanto il solido sarebbe stato automaticamente soggetto all'entropia e al bombardamento di raggi cosmici dell'altra epoca.
Dopo di che i Calcolatori si sarebbero messi in funzione e avrebbero comunicato a Unthahorsten l'epoca visitata dalla macchina, per esempio che era stata brevemente nell'anno 1.000.000 d.c. o nel 1000 d.c. o in altri periodi.
Certamente questo non avrebbe avuto alcun significato per nessuno tranne che per lo stesso Unthahorsten, il quale sotto alcuni aspetti era un tipo infantile.
Ormai la Cassa iniziava a risplendere e a tremolare. Non c'era più molto tempo. Unthahorsten girò freneticamente gli occhi attorno e si precipitò nel vicino glossatch, buttandosi su un bidone di immagazzinaggio, estraendone un mucchio di materiale strano, tra cui dei giocattoli ormai accantonati dal figlio Snowen, che il ragazzo si era portato dietro nel momento del suo abbandono della Terra, dopo aver acquisito la tecnica necessaria. Ormai a Snowen non serviva più quella cianfrusaglia, era ormai condizionato e non necessitava più di oggetti legati all'infanzia. La moglie di Unthahorsten non era riuscita a separarsi sentimentalmente da quegli oggetti ma l'esperimento veniva sopra ogni cosa.
Unthahorsten usci all'aperto dal glossatch e rovesciò l'intero contenuto nella Cassa chiudendo il coperchio un attimo prima dello squillo del segnale. La Cassa spari, lasciando a Unthahorsten una sensazione di bruciore agli occhi.
Poi...
Poi iniziò la grande attesa di Unthahorsten.
L'attesa si protraeva e Unthahorsten alla fine rinunciò e si mise a costruire un'altra macchina del tempo, simile alla prima. Visto che né Snowen né la madre si erano irritati per la perdita dei vecchi giocattoli Unthahorsten vuotò contemporaneamente il contenuto del bidone, le reliquie dell'infanzia del figlio nella Cassa della seconda macchina del tempo.
Dai suoi calcoli la macchina avrebbe dovuto proiettarsi sulla Terra alla fine del diciannovesimo secolo d.C. Ma se così accadde, la macchina vi restò.
Infine Unthahorsten completamente demoralizzato rinunciò a costruire ulteriori macchine del tempo. Ma ormai due erano state varate, la prima...
Fu Scott Paradine a trovarla. Stava marinando le lezioni della scuola Elementare di Glendale, perché quel giorno aveva il compito di geografia e Scott non riusciva a capire l'utilità di imparare a memoria i nomi di varie località. Per l'epoca, il 1942 la teoria aveva un certo suo valore intrinseco. Senza poi contare che era una bellissima e calda giornata di primavera, dotata di una brezzolina fresca, proprio l'ideale per invitare un bambino a sdraiarsi nei prati e guardare le nuvolette fino a sentirsi gli occhi appesantiti nel sonno. La geografia poteva andare al diavolo e puntualmente Scott si addormentò.
A mezzogiorno avvertì un senso di fame e trotterellò in un negozio lì vicino dove mise a frutto il suo gruzzolo con la severità di un avaro, a dispetto dei suoi succhi gastrici. Poi andò a mangiare in riva al ruscello.
Spazzolati scrupolosamente formaggio, cioccolata e biscotti e prosciugata la bottiglietta di gassosa, Scott si dedicò alla caccia ai girini che studiò con una certa curiosità scientifica. Ma non aveva costanza sufficiente e quando udì qualcosa rotolare giù dalla scarpata, e precipitare con un tonfo nel fango in riva al ruscello Scott con cautela e prudenza corse subito a indagare.
Era una cassa, ma non una cassa qualunque, bensì la Cassa. Scott non poteva certo penetrare il significato dei congegni fissati ad essa. Ma Scott non era tanto sprovveduto da non porsi il perché fossero fusi e bruciati. Si mise a pensare e aiutandosi con un coltellino si mise all'opera forzando i congegni, con la lingua fuori dalla bocca. Attorno non c'era anima viva. Ma allora da dove veniva quella cassa e chi l'aveva abbandonata lì sul terreno che franando l'aveva portata in riva al ruscello?
«Ah, un'elica» concluse Scott che però aveva frainteso. Non era un'elica anche se aveva forma elicoidale grazie alla distorsione dimensionale. Se fosse stato un aeromodello, anche se complicato, Scott avrebbe potuto sviscerarlo senza fatica. Ma invece Scott non ci capiva niente e comprendeva istintivamente che il congegno era molto più complicato del motore a molla che aveva smontato facilmente la settimana prima.
Ma la curiosità è un richiamo troppo irresistibile per un bambino, non si poteva certo lasciare una cassa senza aprirla, a meno di non venire trascinato via a viva forza. Scott fece un'indagine più approfondita. Gli angoli della cassa erano strani, probabilmente era stato un corto circuito, già, questo era il motivo... Il coltellino scivolò ferendo Scott al pollice. Scott si infilò il dito in bocca bestemmiando con padronanza e succhiandoselo.
Che si trattasse di un carillon?
Il congegno era abbastanza complicato da mettere in difficoltà un Einstein, e da fare impazzire fino all'ultimo stadio uno Steinmetz. Perciò Scott non si sentiva affatto avvilito. Purtroppo la cassa non era completamente integrata nel continuum spazio-temporale dove si trovava Scott ed era il motivo per cui non si poteva aprirla. Infine Scott ricorse a una pietra per martellare la pseudo-elica elicoidale in una posizione più idonea.
Il sasso spostò la pseudo-elica dal contatto con la quarta dimensione annullando la torsione spazio-tempo che aveva conservato. Con uno scatto, come qualcosa di fragile che si spezzasse la cassa sussultò e poi si bloccò. Ora la sua esistenza non era solo parziale e limitata. Scott poté aprirla facilmente.
Scott fu calamitato dal morbido casco intessuto ma poi lo scartò senza eccessivo interesse, poiché si trattava semplicemente di una calotta. Subito dopo estrasse un blocco squadrato di cristallo trasparente, tanto piccolo da stare in piedi nel palmo di una mano, ma anche troppo minuscolo per contenere quel dedalo di meccanismi e congegni contenuti in esso. Scott definì facilmente la questione, il cristallo era una specie di lente che ingrandiva ciò che conteneva. Dentro sembravano esserci cose molto strane, sembravano persone miniaturizzate.
Come automi a orologeria, ma con una notevole scioltezza si muovevano. Scott, assisteva come se stesse guardando una pièce teatrale, interessato dai costumi e letteralmente affascinato dalle loro azioni. Quegli gnomi stavano costruendo una casa, e Scott sperò in cuor suo che scoppiasse un incendio per mettere alla prova la capacità di sopravvivenza di quelle creaturine.
Dall'edificio costruito a metà si svilupparono le fiamme e gli automi le spensero con una grande varietà di apparati strani.
Scott, seppure un po' preoccupato capì subito che quegli gnomi obbedivano al suo pensiero. La cosa lo turbò e lo spaventò tanto che gettò via il cubo.
Però quando fu a metà scarpata si pentì e tornò sui suoi passi. Il blocco cristallino giaceva nell'acqua e luccicava sotto il sole. Con l'istinto infallibile dei bambini Scott capì che era un giocattolo ma non lo raccolse subito. Si avvicinò alla cassa e si mise a studiare il contenuto non ancora visionato.
Scott passò il pomeriggio a studiare gli aggeggini della cassa, alcuni dei quali erano straordinari. Poi quando il tempo si esaurì Scott ripose i giocattoli nella cassa e se la portò a casa, sbuffando per la fatica, col viso congestionato, fino alla porta della cucina.
Quando fu in camera sua nascose quanto aveva così straordinariamente trovato in un armadio. Il cubo di cristallo sparì in una tasca già piena di spago, rotoli di fil di ferro, spiccioli, una cartuccia di stagnola, un francobollo promozionale per la difesa, sporco e consunto e un pezzo di felspato. La sorellina minore di Scott, che aveva solo due anni, trotterellò malferma sulle gambe del corridoio, salutandolo.
«Ciao, Lumaca» la apostrofò Scott con la superiorità dei suoi sette anni, accennando col capo. Anche se Emma non poteva capire la sfumatura, Scott aveva un atteggiamento in bilico tra condiscendenza e atteggiamento protettivo. La bambina, grassottella, piccola con gli occhioni spalancati, si lasciò cadere sul tappeto guardandosi triste le scarpe.
«Scott, me le leghi per piacere?»
«Sciocchina» le disse affettuosamente il fratello che le annodò i lacci. «È pronta la cena?»
Emma fece cenno di sì.
«Allora, fammi vedere le manine» le chiese Scott, guardandole le manine che erano abbastanza pulite anche se certamente non sterilizzate. Si guardò a sua volta le proprie manacce e si infilò in bagno con una smorfia limitandosi a una pulizia alquanto superficiale, senza riuscire a cancellare le tracce dei girini.
Dennis Paradine e la moglie Jane stavano centellinando il loro cocktail nel soggiorno in attesa di cenare. Dennis era un uomo di mezza età, ma con aria giovanile, capelli brizzolati e il volto magro e serio. Era docente di filosofia. Jane era piccola, linda; bruna e molto graziosa. Dopo un sorso del suo Martini disse:
«Ehi, non hai notato le mie scarpe nuove? Ti piacciono?»
«Pazzesco» mormorò Dennis meditabondo. «Cosa? Le scarpe? Ma ora no, fammi finire questo. Ho avuto una giornata pesante.»
«Esami?»
«Già, ragazzotti facinorosi che aspirano a diventare uomini. Spero che muoiano, soffrendo, atrocemente. Insh'Allah!»
«Passami un'oliva,» fece Jane.
«Sì,» rispose Dennis depresso. «Sono anni che non ne assaggio. Nel Martini intendo. Anche se te ne ficco sei nel bicchiere non sei mai contenta.»
«Voglio la tua. Fratellanza di sangue. Simbologia, ecco.»
Dennis guardò la moglie, accavallando le gambe.
«Parli come uno dei miei studenti.»
«Già, magari come quella smorfiosa di Betty Dawson, eh?» ribatté Jane sfoderando gli artigli. «Ti guarda in modo scandaloso.»
«Già, è un bel problema quella ragazza, meno male che non spetta a me risolverlo. Già, altrimenti...» Dennis ammiccò col capo. «Si tratta di coscienza sessuale e cinema, troppo cinema. Deve essere convinta di poter comprarsi un bel voto facendomi vedere le ginocchia. Ginocchia magroline, ossute direi.»
Jane si pettinò la gonna soddisfatta e Dennis si alzò stirandosi e versandosi un altro cocktail. «Ma non riesco a capire che significato ha insegnare filosofia a quegli idioti. Ormai sono troppo vecchi, hanno le loro abitudini, i loro metodi mentali, sono terribilmente conservatori, anche se non possono ammetterlo. Solo gli adulti maturi o i bambini come Scott o Emma possono capire la filosofia.»
«Be', non avrai intenzione di iscrivere Scott al tuo corso, spero,» disse Jane, «non è ancora pronto per essere nominato Philosophiae Doctor, non amo i bambini prodigio soprattutto se si tratta poi del mio Scott.»
«Certamente Scott sarebbe più in gamba di Betty Dawson,» borbottò Dennis.
«E fu così che vecchio e rimbecillito morì all'età di cinque anni,» citò Jane persa nei suoi pensieri. «Dai, dammi la tua oliva.»
«Eccotela. Be', sì mi piacciono le tue scarpe.»
«Oh, gentile, da parte tua. Ecco, Rosalie. È pronta la cena?»
«Tutto pronto, signora Paradine,» disse Rosalie. «Chiamo la signorina Emma e il signorino Scott.»
Paradine si affacciò nella stanza vicino ruggendo: «No, li chiamo io! Bambini, su venite a tavola!»
Dopo uno stropicciare di piedini apparve Scott, tirato a lucido, veloce come una freccia, con il ciuffo ribelle puntato verso l'alto. Emma lo tallonava, scendendo prudentemente i gradini. Quando fu a metà scala non cercò più di scendere dritta ma si girò portando a conclusione l'ardua impresa a mo' di scimmia mostrando il sedere profondamente impegnato. Paradine la osservò affascinato finché suo figlio lo investì facendolo indietreggiare.
«Ciao, papà!» gridò Scott.
Dennis ritrovò la padronanza e guardò dignitosamente il figlio. «Ciao Scott, su, aiutami ad andare a cena, mi devi aver slogato una giuntura dell'anca.»
Ma Scott era già sfrecciato nell'altra stanza, calpestando le scarpe nuove di Jane in uno slancio affettuoso e poi con un borbottamento di scusa si piazzò a tavola. Paradine lo segui contrariato mentre la manina di Emma gli afferrava disperatamente l'indice.
«Cosa ha combinato quel discolo?»
«Uhm, non promette niente di buono,» Jane sospirò. «Ciao caro, su, fammi vedere le orecchie.»
«Sono pulite, me le ha leccate Mickey.»
«Ah, sicuramente la lingua di quell'airedale è più pulita delle tue orecchie,» rispose Jane, mentre ispezionava le cavità di Emma. «Comunque, poiché sei ancora in grado di sentire, c'è solo sporcizia superficiale.»
«Perficiale?»
«Si, cioè in quantità limitata,» disse Jane trascinandosi la piccola a tavola e sistemandola sul seggiolone. Emma, da poco ammessa all'onore della cena con la famiglia, era orgliosissima e si vedeva. Poiché le era stato detto che solo i bambini piccoli rovesciavano la pappa, ogni volta che si portava il cibo alla bocca ci metteva tanto impegno da far sbellicare Paradine ogni volta.
«Sarebbe una buona idea un nastro scorrevole per Emma,» disse Dennis scostando la sedia per far accomodare la moglie. «Secchielli di spinaci che arrivano all'altezza della sua bocca a intervalli regolari.»
La cena si svolse tranquillamente, Poi Paradine vide il piatto di Scott. «Ehi, ti senti male? Oppure hai mangiato troppo oggi?»
Scott era chino in meditazione sul cibo intatto che aveva nel piatto, poi si degnò di spiegare: «Papà, ho mangiato tutto quanto mi era necessario.»
«Ma se di solito mangi a crepapelle, fino a scoppiare,» protestò il padre. «I bambini hanno bisogno di tonnellate e tonnellate di cibo al giorno, ma stasera sei sotto il livello medio. Sei sicuro di star bene?»
«Altroché. Davvero papà, ho mangiato quello che mi andava.»
«Tutto quello che ti andava?»
«Certo, solo che mangio in maniera diversa.»
«Te l'hanno insegnato a scuola?» chiese la madre.
Scott negò solennemente con la testa.
«Nessuno me lo ha insegnato, l'ho scoperto da me. Usando lo sputo.»
«Ah, ah,» suggerì il padre, «da capo, la parola non è quella giusta.»
«Ehm... saliva. Eh?»